.: Il Blog di Alessandro Rizzo

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“Questa non è la carriera che volevo”
di FEDERICO PACE
Scegliere, per lo più, è difficile. Se si tratta di lavoro però, sembra essere, quasi impossibile. Tanto che a molti capita di ritrovarsi a fare qualcosa, senza sapere neppure il perché. Tante le svolte incontrate per strada che alla fine, proprio quando si è arrivati a conquistare un lavoro, ci si accorge che proprio quell’impiego, tanto agognato, non era quello che si voleva. E il tempo in ufficio rischia di diventare un tempo “spersonalizzato” in cui è sempre più difficile esprimere e affermare qualità e ambizioni.
L’attività professionale ha uno stretto legame con quello che s’agita dentro ciascuno in termini di affermazione, ambizione e realizzazione delle proprie qualità. Ritrovarsi in un posto che non offre il necessario sviluppo a queste energie può avere conseguenze molto negative sia a livello di singolo lavoratore sia, più complessivamente, a livello aziendale. “Nella società contemporanea – ci ha detto Stefano Giorgetti direttore di Kelly Services Italia - la soddisfazione rispetto alla propria condizione lavorativa gioca un ruolo sempre più importante. E’ infatti una tendenza diffusa, in Italia come in molti altri Paesi europei, quella di aumentare il monte ore lavorativo quotidiano. Per questo diventa fondamentale che ciascuno cerchi di scegliere una professione nella quale “riconoscersi”; inoltre i rapidi cambiamenti tecnologici, e non solo, che caratterizzano i tempi “moderni” rendono necessari momenti di aggiornamento e di studio che possono essere colti come opportunità solo se il lavoratore vive la propria professione in modo partecipativo. Senza contare il fatto che un lavoratore impiegato in un’occupazione appagante, oltre ad essere più sereno anche nella vita privata, darà performance nettamente migliori rispetto a quelle di un collega demotivato, a beneficio di tutta l’azienda”.
Purtroppo accorgersi di avere sbagliato, così nella vita come nel lavoro, non basta. Anzi rischia di aggravare ancora di più le cose. Perché “riparare” non è affatto facile. Quasi impossibile tirare le conseguenze e decidere di lasciare l’impiego che si è svelato “sbagliato”. Tanto che al contrario, quasi sempre ci si ritrova a continuare a fare quel che si è scoperto essere inadatto a sé. La ragione principale va rintracciata, ovviamente, nelle condizioni economiche. Le indica infatti come fattore principale il 44 per cento delle donne e il 42 per cento degli uomini. Tra gli altri motivi indicati, il tempo necessario per “riconvertirsi” al nuovo impiego (rispettivamente il 38 e il 35 per cento) e poi le motivazioni collegate in vario modo alla famiglia (il 17 e il 18 per cento).
Se si fa un confronto internazionale, la quota di italiani che hanno ammesso di aver sbagliato carriera è simile a quella riscontrata negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Olanda, Francia, Svizzera, Spagna, Germania e Irlanda. Tutte con una percentuale di “certamente insoddisfatti” compresa nella forchetta 15-20 per cento. Altrove invece i dati sono ancora più elevati e raggiungono i picchi in Messico (65 per cento), Ucraina (42 per cento) e Turchia (40 per cento).
Quanto al sistema formativo, per il 51 per cento dei lavoratori intervistati, scuola e università mancano il loro compito di preparare in modo soddisfacente alla vita lavorativa. In Italia lo pensano il 38 per cento mentre una quota simile (il 39 per cento) ritiene invece che l’educazione scolastica ricevuta sia stata adeguata. Le percentuali più basse, a livello regionale, si trovano in Friuli Venezia Giulia, Molise, Basilicata, Puglia, Sardegna e Toscana. Quanto alle scuole di specializzazione e ai master, quasi sette su dieci pensa che siano stati utili ai fini lavorativi, anche se molti ritengono che si dovrebbero sviluppare ancora di più gli aspetti pratici del corso a scapito di quelli più teorici.
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