
L'Europa regionale Umanista
L’Europa ha una lunga storia di guerre e di divisioni e interne, di imperialismo e di sottomissione a tanti invasori, di alleanze e di nazionalismi che hanno visto spesso gli stessi attori a volte fratelli a volte nemici, ma anche momenti di ispirazione, di convergenza culturale, insomma momenti umanisti.
Il risultato è una popolazione estremamente variegata, diversità di lingue, di abitudini, di tradizioni artistiche e culturali, di valori.
Ma se parliamo oggi di una regione europea non è certo per sbandierare una identità culturale che si contrapponga ad altre culture.
Le nostre aspirazioni sono di segno opposto alla regionalizzazione che si sta dando nel mondo, come risposta alla globalizzazione, e che porta il segno dell’integrazione economica: crescere economicamente per diventare una potenza e avere maggior controllo ed egemonia politica e militare, contrapponendosi alle altre regioni.
Nella dichiarazione conclusiva del forum di Praga si diceva:
La nostra aspirazione è che i popoli d'Europa cambino il loro sguardo, vedendosi non come competitori o nemici ma come parte della stessa storia e dello stesso futuro
La nostra aspirazione è che i popoli d'Europa riconoscano in se stessi il contributo di altre culture
La nostra aspirazione è che i popoli d'Europa dedichino i loro migliori sforzi a favore degli altri popoli
La nostra aspirazione è che i popoli d'Europa abbraccino coloro che arrivano da altri luoghi, riconoscendo il loro valore e comprendendo la diversità come una necessità dell'evoluzione verso la nazione umana universale
La nostra aspirazione è che ognuno di noi possa scoprire questa nazione umana universale che già si annida nella parte più profonda di ognuno
La nostra aspirazione è che ognuno di noi possa trasformare questo sentimento in atto coerente risvegliando questa nuova realtà in ogni essere umano.
E’ evidente che l’Europa che abbiamo in testa non è quella del Trattato di Mastricht, sotto il segno della liberalizzazione e della privatizzazione dei servizi sociali, non è quella del trattato di Scenghen, sotto il segno del razzismo e della discriminazione nei confronti degli immigrati, non è quella del Trattato di Nizza, sotto il segno di un nuovo armamentismo che vede impegnate quote crescenti delle risorse finanziarie degli Stati membri, mentre continuano a tagliarsi i fondi destinati ad assicurare i minimi diritti umani.
Non sono sufficienti a questa idea di Europa i confini dell’Unione europea, anche se in continua espansione.
Dove metteremmo i confini?
Perché gli abitanti della Sicilia dovrebbero sentirsi separati da quelli del nord dell’Africa?
Forse pensiamo come Bush che basti un muro per bloccare le intenzioni che da sempre hanno spinto gli esseri umani a muoversi, a conoscere, a cambiare la loro vita?
Forse pensiamo che poiché le guerre attuali si svolgono fuori (appena fuori) dei confini europei il pericolo nucleare non ci riguardi?
La guerra nucleare è oggi, ancor più della catstrofe ecologica, il maggior pericolo che incombe sul mondo intero. Israele possiede oggi l’arma suprema e non ha aderito al patto di non proliferazione nucleare, come il Pakistan e l’India. Non lontano dalla zona tre potenze atomiche sono impegnate militarmente, Stati Uniti e Regno unito in Iraq e Afganistan e la Russia in Cecenia. In Afganistan combatte anche la più importante alleanza militare, l’Organizzazione del trattato nord atlantico (NATO), di cui fa parte la Francia, che a sua volta è una potenza atomica.
Nella zona compresa tra i confini occidentali dell’India fino al canale di Suez si concentra l’arsenale più devastante di tutti i tempi. Una semplice scintilla può provocare la deflagrazione.... che non riguarderà solo quella zona.
Le sfide sono oggi mondiali e mondiale e univoca deve essere la risposta.
Lo scontro di interessi economici rischia di trasformarsi in scontro di culture
Il Forum regionale europeo è l’occasione per fare un passo importante nel processo di integrazione nel quale le diversità culturali, che con l’inarrestabile fenomeno migratorio includono quelle provenienti da altri continenti, diano ciascuna il miglior contributo verso ciò che accomuna, tralsciando ciò che divide.
Un percorso che a partire da questo piccolo e antico continente inneschi un processo che deflagri, questo sì, a livello mondiale, per accelerare la formazione dell’unica nazione cui aspiriamo, la nazione umana universale.
Facce da C...o. reset!
10 Novembre 2006

RESET! I deputati hanno diritto alla pensione dopo 30 mesi di legislatura. Siamo perciò tranquilli che il Parlamento terrà fino alla fine del 2008. Ci sono più di 400 parlamentari al primo mandato. E puntano tutti alla pensione dei 30 mesi. I dipendenti plurimi invece la pensione ce l’hanno già in tasca. Tra un paio d’anni Napolitano potrà sciogliere quello che gli pare, con o senza conati anti secessionisti, faccia un po’ lui. Gli italiani, quando sopravvivono, vanno in pensione dopo 35 anni. Tra noi e i nostri dipendenti c’è quindi una evidente disparità di trattamento.
Qui, caro Dipendente del consiglio Prodi, ci arriva una tassa al minuto, ma i senatori e i deputati non pagano mai dazio. Perchè dovremmo pagare noi anche per loro? O le pensioni maturano per ogni italiano dopo 30 mesi, o i parlamentari si adeguano a tutti gli altri.
So che i nostri dipendenti non accoglieranno questo appello. Anche in questo caso avvierò un’iniziativa di legge popolare. Lo farò insieme alla legge che riduce a due le legislature per ogni dipendente (con effetto retroattivo). RESET!
La pensione dei parlamentari è una vergogna minima, di quelle che si dicono sottovoce. Cercando di non farsi notare. E di portare a casa il bottino. I privilegi per loro, i sacrifici per gli italiani. Ma questi dipendenti sono in realtà comparse televisive. Vedersi gli piace. Sono sempre lì a guardarsi parlare. Il pubblico in sala, i meet up presenti, gli facciano allora questa domanda: “Non provate vergogna a maturare la pensione dopo appena 30 mesi?”. Riprendete domanda e risposta (o fuga) e inviate al blog. I video saranno tutti pubblicati in una nuova area ad hoc: “Facce da c..o”. RESET!
Cpt Milano....risposta Prefettura negativa alle richieste
Allegato | Descrizione |
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BASTA CON I RAID ISRAELIANI....PRESIDIO ORE 17
BASTA CON I RAID ISRAELIANI
CONTRO LA STRISCIA DI GAZA
INTERVENTO DELL’ONU SUBITO
Presidio davanti all’Ufficio commerciale israeliano
Corso Europa 12
Venerdì 10 novembre ore 17
Il massacro di civili di Beit Hanoun (quasi tutti donne e bambini)
rischia
di innescare l’ennesima, incontrollabile spirale di violenza tra un
esercito
brutale e indifferente ai “danni collaterali” della lotta al terrorismo
e
chi, tra i palestinesi, sa rispondere solo invocando attentati suicidi
e
altri morti.
Le condanne di rito non bastano: le Nazioni Unite devono intervenire
per
fermare i raid israeliani e riprendere un ruolo attivo e non succube di
Israele come quello a cui si sono lasciate ridurre in Libano.
Chiediamo:
L’intervento dell’ONU a Gaza e in Cisgiordania
La cessazione immediata dei raid israeliani sulla striscia di Gaza
Siamo convinti che fino a quando non si arriverà alla creazione di uno
Stato
Palestinese a pieno titolo, il Medio Oriente resterà in una perenne
situazione di instabilità, violenza e conflitto.
Chiediamo quindi il ritiro di Israele da tutti i territori occupati, la
distruzione del muro e lo smantellamento del suo arsenale atomico, nel
quadro di una politica di disarmo che tutte le potenze nucleari
dovrebbero
avviare con urgenza.
Partito Umanista
PER UN MONDO SENZA GUERRA
Oggi stesso! Per il domani di una nuova umanità!
L’Europa, la civile Europa, la cristiana Europa è stata lo scenario di due guerre mondiale, di infinite guerre di confine, di occupazione di territori lontani, di deportazioni, sfruttamento e barbarie storiche come il nazismo e il fascismo.
Dopo secoli di violenza è difficile immaginare la pace e un mondo di fraterna amicizia nella diversità.
All’inizio del terzo millennio dobbiamo ammettere che senza un cambiamento di direzione negli sguardi, nelle teste, nei cuori e nelle azioni dei popoli e di chi li governa il futuro sarà pieno di scontri, minacce e conflitti.
Oggi il pericolo nucleare pone l’umanità sull’orlo dell’abisso.
Un mondo senza guerre è fino ad oggi un mondo sconosciuto sul Pianeta Terra.
Tuttavia, perché non lavorare in questa direzione, cercando di cambiare la direzione della storia, costruendo un vero futuro di pace e nonviolenza?
Questa dichiarazione di pace è la nostra sfida a tutti gli esseri umani.
Questa dichiarazione di nonviolenza è la nostra responsabilità come umanisti.
Assumiamo questa responsabilità liberamente e la portiamo avanti con tutti coloro che rifiutano ogni forma di violenza e puntano sulla convivenza, lo sviluppo condiviso, la democrazia reale, la tecnologia al servizio della scienza e la scienza al servizio dell'essere umano.
Eliminare le guerre significa uscire definitivamente dalla preistoria umana e fare un passo da gigante nel cammino evolutivo della nostra specie
Un "mondo senza guerre" è una proposta che guarda al futuro ed aspira a diventare concreta in ogni angolo del pianeta, affinché il dialogo sostituisca la violenza.
In questa aspirazione ci accompagna la forza della voce di migliaia di generazioni che hanno subito le conseguenze della violenza, il cui rimbombo continua a farsi sentire oggi.
È arrivato il momento di far sentire la voce dei senza-voce, dei milioni di esseri umani che chiedono con forza che finiscano le guerre!
Invitiamo sia singoli individui che rappresentanti e membri di organizzazioni, collettivi, gruppi, partiti politici, imprese ad aderire a questa dichiarazione e a lavorare ognuno nel suo campo, a partecipare a coordinamenti, fronti e forum, al fine di generare un grande movimento che ponga fine alle guerre e ad ogni tipo di violenza.
La guerra non porterà mai alla pace.
La pace esisterà solo con una vera giustizia sociale.
FORUM UMANISTA EUROPEO LISBONA 2006
Gli Schiavi Moderni

Vignetta di Emanuele Fucecchi
Ho l’impressione che i politici vivano in un mondo a parte, lontano dai cittadini. E che si cibino di intenzioni di voto, di tendenze elettorali, di poltrone e poltroncine. Ma anche una sedia a dondolo gli può bastare. L’unica realtà che conoscono è la loro e il cittadino è sempre suddito. Nessuno ha chiesto truppe in Libano, indulto, aumento della clandestinità e bavaglio alle intercettazioni. Se Prodi si fosse presentato con un programma del genere, l’originale avrebbe preso il 90% dei voti.
La legge Biagi è uno scandalo, perchè il Governo non ci ha messo mano nei primi 100 giorni? I ragazzi italiani valgono meno dei delinquenti? Che spettacolo: importiamo schiavi e li creiamo contemporaneamente a casa nostra.
Pubblico un’analisi degli effetti della legge Biagi di Roberto Leombruni di LABOR e di Mauro Gallegati della Facoltà di Economia di Ancona.
“Caro Grillo,
quello che è successo all’Atesia, cui l’Ispettorato del lavoro ha imposto di assumere a tempo indeterminato 3200 collaboratori “a progetto” (le virgolette sono s’obbligo, perché il “progetto” era quello di rispondere ai telefoni di un call center), dimostra quanto sia urgente tornare su un contratto di lavoro – il contratto di collaborazione coordinata e continuativa – che è talmente precario che quando hai finito di dire come di chiama è già finito. A meno che non intervenga un giudice, appunto. Bene, dato che Prodi ha affermato più volte che la lotta al precariato è una priorità del suo governo, sarebbe una buona idea aiutare i giudici e riformare radicalmente un contratto che negli ultimi dieci anni ha tenuto milioni di giovani ai margini del mercato del lavoro – posizione dalla quale è stato più agevole un loro pacato sfruttamento.
Quanti sono veramente i collaboratori? Sì, sono milioni. Era da dieci anni che aspettavamo stime affidabili. Basti dire che l’Istat – forse pensando fossero pochi – ha atteso il 2004 prima di introdurre una domanda ad hoc nelle sue indagini, e dalle prime stime sembrava non fossero poi molti (se 400.000 vi sembran pochi). Pochi giorni fa però l’Inps ha finalmente pubblicato il suo osservatorio basato su dati reali, e ora sappiamo la verità: i collaboratori, solo nel 2004, erano quasi il triplo, erano più di un milione. Non stiamo parlando dei soli collaboratori, tenendo quindi fuori i professionisti, che di solito vengono considerati tra i salvati (ma su questo vedi più sotto, alla voce “apri la partita IVA o ti licenzio”). E anche considerando solo le persone per le quali la collaborazione è l’unica forma di lavoro, e hanno un contratto con un solo committente – categoria di solito identificata come la più debole – sempre al 2004 se ne contavano 840.000.
Perché sono da cambiare.
Per tanti motivi, che vengono fuori da tante storie che si leggono anche in questo blog. Ma il vero problema è che son nate male. Prima del ’96 l’unico modo regolare per prendere un lavoratore per un periodo breve era quella di assumerlo con un tempo determinato, pagando contributi sociali di circa il 33%, e – come in tutto il mondo civile, da un secolo a questa parte – pagandogli ferie, tredicesima e liquidazione. Esisteva però una prassi molto vicina al lavoro nero, che era quella di proporre un contratto di prestazione d’opera occasionale “e poi magari vediamo”, evitando così di pagare contributi e tutto il resto. Nel ’96 però nasce la famigerata formula della “collaborazione coordinata e continuativa”, che se ha regalato un 10% di contributi a quei lavoratori quasi in nero, di fatto ha finito per legalizzare la prassi di mascherare dei rapporti di lavoro dipendente sotto una etichetta ancora più innocente della prestazione occasionale. In assenza di controlli efficaci non c’è voluto molto perché si cominciassero a utilizzare le collaborazioni anche nei call center (l’equivalente moderno della catena di montaggio) e per lavori di durata di anni. Chi ne ha voluto approfittare si è garantito una forma di lavoro a costi stracciati – rispetto al lavoro dipendente il risparmio era di circa il 40%, meglio di un tre per due al supermercato – e una generazione di lavoratori si è trovata a lavorare per anni senza quasi mettere da parte nulla per la propria pensione, e con un livello di tutele da Inghilterra dei tempi della rivoluzione industriale. Basti pensare che solo nel 2000 è arrivata la copertura per gli infortuni e le malattie professionali. Del diritto di sciopero ovviamente ancora niente.
Perché la riforma Biagi ha peggiorato le cose.
Per la verità una riforma c’è appena stata, con la legge Biagi, ma a parte cambiare il nome in un “cocoprò” dal suono appena meno avicolo è stata una riforma per molti versi peggiorativa. Le intenzioni erano di limitare l’utilizzo improprio delle collaborazioni, e per far questo la legge richiede una forma scritta al contratto (prima non era necessaria, anche all’invenzione della scrittura ci abbiamo messo un po’ ad arrivarci), e che si identifichi uno specifico progetto. Se non si può identificare un progetto l’impresa può essere obbligata ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro dipendente. È questa la clausola che è stata applicata per Atesia (come è stato osservato, è poco credibile che più di tremila lavoratori di un call center abbiano ciascuno il proprio progettino specifico da svolgere).
Peccato che la stessa legge stabilisca (art. 69) che il controllo del giudice “non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. E che con la circolare 1/2004 Maroni, come ulteriore liberalità, abbia precisato che una cocoprò può essere rinnovata quante volte vi pare.
Come dire, basta far la fatica di scrivere una volta all’anno un progetto ah hoc e si può tenere un dipendente a vita come collaboratore.
Nei fatti, la Biagi ha provocato una reazione quasi schizofrenica da parte delle imprese. In molti casi, le vecchie cococò sono state semplicemente trasformate in cocoprò. Altri, temendo la clausola citata sopra, hanno reagito con l’arma del ricatto. Lo dimostra una ricerca dell’IRES, condotta su un campione di persone che hanno aperto una partita IVA tra il 2003 e il 2004, dalla quale è venuto fuori come nel 50% dei casi questi l’hanno aperta perché gli è stato chiesto dal datore di lavoro, pena il non rinnovo del contratto. Peccato che il 40% di loro abbiano un unico committente (l’80% contando i rapporti quasi esclusivi), e continuino a essere a tutti gli effetti in quella categoria dei “collaboratori puri” che si diceva”.

Vignetta di Emanuele Fucecchi
Ho l’impressione che i politici vivano in un mondo a parte, lontano dai cittadini. E che si cibino di intenzioni di voto, di tendenze elettorali, di poltrone e poltroncine. Ma anche una sedia a dondolo gli può bastare. L’unica realtà che conoscono è la loro e il cittadino è sempre suddito. Nessuno ha chiesto truppe in Libano, indulto, aumento della clandestinità e bavaglio alle intercettazioni. Se Prodi si fosse presentato con un programma del genere, l’originale avrebbe preso il 90% dei voti.
La legge Biagi è uno scandalo, perchè il Governo non ci ha messo mano nei primi 100 giorni? I ragazzi italiani valgono meno dei delinquenti? Che spettacolo: importiamo schiavi e li creiamo contemporaneamente a casa nostra.
Pubblico un’analisi degli effetti della legge Biagi di Roberto Leombruni di LABOR e di Mauro Gallegati della Facoltà di Economia di Ancona.
“Caro Grillo,
quello che è successo all’Atesia, cui l’Ispettorato del lavoro ha imposto di assumere a tempo indeterminato 3200 collaboratori “a progetto” (le virgolette sono s’obbligo, perché il “progetto” era quello di rispondere ai telefoni di un call center), dimostra quanto sia urgente tornare su un contratto di lavoro – il contratto di collaborazione coordinata e continuativa – che è talmente precario che quando hai finito di dire come di chiama è già finito. A meno che non intervenga un giudice, appunto. Bene, dato che Prodi ha affermato più volte che la lotta al precariato è una priorità del suo governo, sarebbe una buona idea aiutare i giudici e riformare radicalmente un contratto che negli ultimi dieci anni ha tenuto milioni di giovani ai margini del mercato del lavoro – posizione dalla quale è stato più agevole un loro pacato sfruttamento.
Quanti sono veramente i collaboratori? Sì, sono milioni. Era da dieci anni che aspettavamo stime affidabili. Basti dire che l’Istat – forse pensando fossero pochi – ha atteso il 2004 prima di introdurre una domanda ad hoc nelle sue indagini, e dalle prime stime sembrava non fossero poi molti (se 400.000 vi sembran pochi). Pochi giorni fa però l’Inps ha finalmente pubblicato il suo osservatorio basato su dati reali, e ora sappiamo la verità: i collaboratori, solo nel 2004, erano quasi il triplo, erano più di un milione. Non stiamo parlando dei soli collaboratori, tenendo quindi fuori i professionisti, che di solito vengono considerati tra i salvati (ma su questo vedi più sotto, alla voce “apri la partita IVA o ti licenzio”). E anche considerando solo le persone per le quali la collaborazione è l’unica forma di lavoro, e hanno un contratto con un solo committente – categoria di solito identificata come la più debole – sempre al 2004 se ne contavano 840.000.
Perché sono da cambiare.
Per tanti motivi, che vengono fuori da tante storie che si leggono anche in questo blog. Ma il vero problema è che son nate male. Prima del ’96 l’unico modo regolare per prendere un lavoratore per un periodo breve era quella di assumerlo con un tempo determinato, pagando contributi sociali di circa il 33%, e – come in tutto il mondo civile, da un secolo a questa parte – pagandogli ferie, tredicesima e liquidazione. Esisteva però una prassi molto vicina al lavoro nero, che era quella di proporre un contratto di prestazione d’opera occasionale “e poi magari vediamo”, evitando così di pagare contributi e tutto il resto. Nel ’96 però nasce la famigerata formula della “collaborazione coordinata e continuativa”, che se ha regalato un 10% di contributi a quei lavoratori quasi in nero, di fatto ha finito per legalizzare la prassi di mascherare dei rapporti di lavoro dipendente sotto una etichetta ancora più innocente della prestazione occasionale. In assenza di controlli efficaci non c’è voluto molto perché si cominciassero a utilizzare le collaborazioni anche nei call center (l’equivalente moderno della catena di montaggio) e per lavori di durata di anni. Chi ne ha voluto approfittare si è garantito una forma di lavoro a costi stracciati – rispetto al lavoro dipendente il risparmio era di circa il 40%, meglio di un tre per due al supermercato – e una generazione di lavoratori si è trovata a lavorare per anni senza quasi mettere da parte nulla per la propria pensione, e con un livello di tutele da Inghilterra dei tempi della rivoluzione industriale. Basti pensare che solo nel 2000 è arrivata la copertura per gli infortuni e le malattie professionali. Del diritto di sciopero ovviamente ancora niente.
Perché la riforma Biagi ha peggiorato le cose.
Per la verità una riforma c’è appena stata, con la legge Biagi, ma a parte cambiare il nome in un “cocoprò” dal suono appena meno avicolo è stata una riforma per molti versi peggiorativa. Le intenzioni erano di limitare l’utilizzo improprio delle collaborazioni, e per far questo la legge richiede una forma scritta al contratto (prima non era necessaria, anche all’invenzione della scrittura ci abbiamo messo un po’ ad arrivarci), e che si identifichi uno specifico progetto. Se non si può identificare un progetto l’impresa può essere obbligata ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro dipendente. È questa la clausola che è stata applicata per Atesia (come è stato osservato, è poco credibile che più di tremila lavoratori di un call center abbiano ciascuno il proprio progettino specifico da svolgere).
Peccato che la stessa legge stabilisca (art. 69) che il controllo del giudice “non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. E che con la circolare 1/2004 Maroni, come ulteriore liberalità, abbia precisato che una cocoprò può essere rinnovata quante volte vi pare.
Come dire, basta far la fatica di scrivere una volta all’anno un progetto ah hoc e si può tenere un dipendente a vita come collaboratore.
Nei fatti, la Biagi ha provocato una reazione quasi schizofrenica da parte delle imprese. In molti casi, le vecchie cococò sono state semplicemente trasformate in cocoprò. Altri, temendo la clausola citata sopra, hanno reagito con l’arma del ricatto. Lo dimostra una ricerca dell’IRES, condotta su un campione di persone che hanno aperto una partita IVA tra il 2003 e il 2004, dalla quale è venuto fuori come nel 50% dei casi questi l’hanno aperta perché gli è stato chiesto dal datore di lavoro, pena il non rinnovo del contratto. Peccato che il 40% di loro abbiano un unico committente (l’80% contando i rapporti quasi esclusivi), e continuino a essere a tutti gli effetti in quella categoria dei “collaboratori puri” che si diceva”.
FORUM UMANISTA EUROPEO LISBONA 2006
La forza della diversità
Aula Magna dell'Università di Lisbona – Città Universitaria - Portogallo
L'obiettivo del Foro è quello di creare ambiti di convergenza, scambio, discussione e progetto tra organizzazioni sociali, partiti e persone coscienti della necessità di cambiare profondamente questo mondo e dell'urgenza di costruire nuove vie per farlo.
Sono molti i volontari che lavorano in organizzazioni sociali di ogni tipo capaci di occuparsi delle necessità di altri e di ricostruire il tessuto sociale, capaci di agire con permanenza ed autonomia. Il Forum invita a tutte le persone ed iniziative che lavorano e si interessano alla pace, alla nonviolenza, ai diritti umani ed al superamento di ogni forma di discriminazione.
In questa ampia base sociale, oggi si moltiplicano gli incontri e le convergenze, perché sperimentiamo la necessità di unire le forze e di ispirarci mutuamente.
Il Forum Umanista europeo è un ulteriore tentativo affinché l'incontro della diversità e l'intuizione del futuro chiariscano la strada e si trasformino in progetti… facendo anche pressione verso coloro che oggi decidono il destino di tutti.
Il Forum Umanista europeo sarà un foro aperto ad attività nei campi culturali, sociali, artistici, educativi, ecc., tanto a persone come ad associazioni e gruppi.
TRA IL SILENZIO E LA PAROLA
[Gabriele Torsello, giornalista, fotografo e documentarista freelance,
collaboratore di movimenti umanitari, impegnato contro la guerra e
contro le
violazioni dei diritti umani, e' stato rapito in Afghanistan sabato 14
ottobre 2006]
Si e' gia' smesso di parlarne, ancora una volta.
Ed invece dobbiamo continuare a dirlo che vogliamo che Gabriele
Torsello sia
liberato.
Che vogliamo che la guerra afgana finisca.
Che vogliamo che l'Italia cessi di partecipare a quella guerra
terrorista e
stragista, e contro la guerra quindi s'impegni.
Che la pace si costruisce col disarmo, la smilitarizzazione dei
conflitti,
l'umana comprensione e l'umana solidarieta'.
Che la nonviolenza e' la via.
*
Sia liberato Gabriele Torsello.
Cessi la guerra in Afghanistan.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
Dichiarazione finale Forum Umanista di Lisbona
Ha convertito l'immigrazione in una nuova forma di schiavitù, installando l'esclusione e la discriminazione nel seno della società
Si è fatta complice della folle corsa agli armamenti e della criminale invasione di territori, ammettendo al proprio interno il potere distruttivo nucleare che pone il mondo sull'orlo della catastrofe
Col pretesto di proteggere dal terrorismo, installa meccanismi di controllo progressivo che, nel nome della sicurezza, uccidono la libertà della gente
Infine, ha svuotato di contenuto la democrazia sottomettendo la gente alla manipolazione da parte di poteri economici crescenti e dei mezzi di comunicazione al loro servizio.
Ritirare immediatamente tutte le truppe europee che stanno invadendo o partecipando all'invasione di territori stranieri
Uscita dei paesi europei dalla NATO e chiusura delle sue basi in territorio europeo
garantire salute ed educazione gratuite e di qualità per tutte le persone che vivono in Europa
Cancellare le leggi sull'immigrazione e chiudere tutti i centri di detenzione. Dare priorità a una cooperazione internazionale reale, non soggetta alle leggi del mercato
Cancellare le leggi antiterrorismo
Garantire l'esercizio della democrazia reale attraverso leggi di responsabilità politica, la decentralizzazione del potere e il rispetto delle minoranze.
Aula Magna dell'Università di Lisbona – Città Universitaria - Portogallo