Abbiamo cominciato per non fermarci
Abbiamo cominciato per non fermarci
Cronaca selvaggia di una mobilitazione in divenire.
Lunedì il cielo di Milano è grigio come spesso accade, poche decine, davanti alle facoltà più attive, bisogna avere il gusto della scommessa per occupare il rettorato della Statale, in via Festa del Perdono, ma forse sta già spirando un vento inusuale, nel deserto di atenei e accademie a Milano, nella città capitale della dequalificazione universitaria, dei baroni più pavidi e calcolatori, della frammentazione sociale del tessuto studentesco, dove il territorio si può costruire solo a partire dalle lotte, e dunque, da poco e niente, negli ultimi dieci anni. Sarà l’ondata di calore che arriva ininterrottamente, con il ritmo di un battito cardiaco, oramai da anni, dalle scuole superiori, sarà che quella generazione meticcia metropolitana, appena risvegliata, sempre più si sente precaria ma viva, intelligente perchè ha a che fare con il sapere ogni giorno, ma incazzata perchè lo trova inutile per autodeterminarsi. Sarà forse che i venti nella pianura padana arrivano senza essere fermati dalle montagne, ma qualcosa sta cambiando. Martedì di fronte al Senato accademico ci sono 500 persone, spuntano i tecnici amministrativi, i dottorandi, ci si sente il corpo vivo dell’Ateneo e, ad essere tenuti fuori dalla stanza dei Bottoni, non si rimpiange nulla, nessuna delegazione, nessuna perplessità, monta l’indignazione e la consapevolezza che il tempo è adesso. Mercoledì e Giovedì le assemblee di facoltà, i numeri si inseguono, sembrano impossibili, 250 a mediazione culturale, un sesto degli iscritti, altrettanti a festa del perdono, poco meno a scienze politiche, e, c’è dell’incredibile, 500 in Bicocca, mentre l’accademia aperta da due giorni è già in fermento, ragazzi giovanissimi, soprattutto dei primi due tre anni, ritrovano il gusto di decidere in autonomia, di essere protagonisti minuto per minuto, di immaginare una piazza e soprattutto di sentirsi tanti, mai abbastanza, ma forti, in crescita, con un futuro davanti. La prospettiva, quello che manca alla vita dei precari è proprio quello che non manca questa volta alla lotta e si vedono finalmente i primi ricercatori, da qualche parte addirittura i docenti. Abbiamo cominciato per non fermarci più è una delle parole d’ordine. Per immaginarsi venerdì, bisognerebbe avere, come nelle narrazioni delle battaglie, una cartina di fronte a sè, tre i cortei ufficiali che attraversano la città, sindacati di base, maestre e insegnanti da Piazza Missori e il concentramento studentesco in Largo Cairoli. Come al solito si attendono migliaia di studenti medi, i cortei interni della settimana sono un segnale del fatto che le decine di concentramenti davanti alle scuole si faranno sentire, in ogni angolo della metropoli, ma questa volta c’è un fatto nuovo. Se il territorio si costruisce nelle lotte, o meglio nelle relazioni sociali da esse prodotte, possiamo azzardare che venerdì è nata l’università a Milano, si è aggiunto un pezzo al territorio della libertà insubordinata dei saperi ed è un pezzo importante, che da altre parti traina, ma qui si trova soltanto sui libri di storia. Da sei punti differenti, concentrati al centro e al nord-est della città, parte il mondo dell’università, l’abitudine ad andare in piazza è scarsa, o risale appunto alle scuole superiori, ma quella di trovarsi di fronte ai portoni è una sfida che assomiglia a un salto nel vuoto. Eppure i sei torrenti arrivano tutti al fiume, c’è anche chi arriva in poche decine e troverà poi i compagni di corso in largo Cairoli, ma già da Cordusio lo spezzone è imponente, lo striscione dice "Facoltà e accademie in mobilitazione permanente, non pagheremo noi la vostra crisi". Si passa via Dante con il camion, come accade solo nelle grandi occasioni e da quel momento in poi i numeri hanno ragione di tutto i resto, non esistono più percorsi stabiliti, ma solo la voglia di invadere la metropoli e anche gli sbirri se ne rendono conto. Cairoli, Ripamonti, assedio al provveditorato, blocchi metropolitani delle circonvallazioni, occupazione di scienze politiche in corteo, tutto assieme, contemporaneamente, perchè gli studenti medi e universitari e il corteo di Missori che si erano riuniti per arrivare in 50.000 al provveditorato sanno disperdersi nuovamente, ognuno a praticare un obiettivo, ognuno a dire dove vuole, quello che vuole. Un altra volta è manif sauvage, non è passato neanche un mese dal 20 settembre, i camion in galleria, la corsa meticcia fino a via Zoretti, l’odio mosso d’amore non è più scandito dal grido Abba Vive (eppure Abba vive, ancora, nelle nostre lotte) ci siamo spostati su un terreno apparentemente più classico, quello della formazione, ma la generazione è la stessa, precaria, meticcia, metropolitana, (anche il corriere se ne accorge il giorno dopo). Essere incontrollabili è la nostra passione, forse perchè allude alla libertà, forse perchè è un modo in cui riusciamo a esprimere potenza e rabbia, senza lasciare la felicità e l’entusiasmo dietro l’angolo. Manif sauvage non è solo una bella indicazione, occorre soffermarsi sul concetto di selvaggio, che non appare per la prima volta nella storia d’Italia e d’Europa, ma appare ogni volta caratterizzato da novità ed efficacia, cioè creatività e blocco della produzione. Innanzitutto stiamo parlando di un modo di essere più che di una istanza, stiamo parlando della composizione sociale delle lotte, cioè una generazione dai quindici ai trant’anni, dove però i più protagonisti ne hanno 20, 21. Dietro non c’è nessun fardello, nessuna reminescenza ideologica o sentimento di appartenenza politica, ma la convinzione di poter cambiare, costruire e l’esperienza di sfuggire al controllo, ognuno lo ha imparato, perchè oggi la libertà è condizione per la sopravvivenza materiale.
Ci sentiamo metropolitani e nessuno vede il motivo di mettere a punto un programma, di tracciare prima una strada. Sarà la fiducia nell’intelligenza collettiva, o una nuova idea del territorio, ma la mobilitazione procede tappa per tappa, con l’unica certezza che abbiamo cominciato per non fermarci più. Una delle paure più grosse, ad esempio, è quella di chiudersi dentro atenei e facoltà, quella dell’occupazione ad oltranza, non è amore per la legalità costituita, solo non c’è rimpianto per gli anni delle lotte perdute, né ansia di scegliere la prima cosa che viene in mente. Probabilmente è abitudine all’uso dell’intelligenza, a prevedere su un futuro incerto, lavorando su una rosa di possibilità, un significato, un segno, per poi farlo esplodere.
Chiudiamo i cancelli per aprirli e invadere le strade e le piazze, blocchiamo la didattica per riprendere la formazione, riaprire le libere università e accademie. Lezioni in piazza, blocchi a singhiozzo, cortei interni, occupazioni a tempo indeterminato, pratiche di autoformazione e di autogestione, blocchi del traffico, invasioni delle stazioni, assedi ai senati accademici, ai provveditorati, ai ministeri, ai ministri hanno questo tratto in comune, è una protesta selvaggia perchè può applicare la forza ovunque, mentre la accumula, in questo senso non ha regole nè binari che non siano quelli pragmatici dell’efficacia e della longevità. Una nuova idea del territorio appunto, anche su questo bisogna tornare.
A Milano non esistono cittadelle universitarie, ma una diffusa rete connettiva di produzione del sapere fatta di licei, scuole professionali, scuole altamente professionalizzanti alternative alle università, alcuni atenei privati di alto livello, la Statale, con due sedi in centro a Milano, una a Sesto San Giovanni e la zona delle facoltà scientifiche, chiamata città studi, a nordest, vicina alla maggior parte dei dormitori universitari (quelli che non sono a S.Leonardo o a Corvetto), e alla sede principale del Politecnico, università di punta dell’Aquis. Ancora c’è l’altra sede del Politecnico a Bovisa (profondo nordovest), la Bicocca, con la sua organizzazione separata e il suo prorettore, che la notte pare una città fantasma.
Aggiungendo a tutto questo la precarietà della vita e il conseguente scorrere disomogeneo del tempo, si capisce come lungo le linee del reticolo del sapere e della formazione non vi sia lo spazio per la costruzione di socialità e di cooperazione libera. La "comunità" che caratterizzava i templi della formazione pubblica non esiste più, è stata cancellata, ma non è il caso di piangere sul latte versato, perchè il suo affondare si porterà dietro la casta baronale, che ne illuminava la via inquadrandola e facendone gerarchia.
Oggi si tratta di realizzare un nuovo territorio, è la suggestione, antica come il mondo, di fondare città, qualcuno lo chiama esodo, ma è semplicemente sperimentare forme di vita, scoprire che si può imparare senza subire la lezione di politiche pubbliche di un apostolo di Friedman e che si può festeggiare la sera nella propria facoltà, per di più senza spendere lo stipendio di una settimana.
Finalmente ci si sente studenti, un pezzo della fauna precaria che sa di poter combattere in un posto preciso, dove va a lezione! Per questo assume una importanza l’assemblea di facoltà... della Statale? Si quella di Sesto San Giovanni!, universitario? No dell’Accademia di Belle Arti! E’ una nuova idea, se non di comunità, sicuramente di comune: territorio comune, obiettivo comune, condizione comune, passioni comuni. L’intelligenza selvaggia non è del selvaggio, ma proprio dei lavoratori della conoscenza, del cognitariato precario, della jungla metropolitana.
E’ intelligenza che non è cultura, non ha nulla di sacrale. Con l’intelligenza e la creatività oggi ci si guadagna il pane, ma non solo, si surfa la legalità e la burocrazia, si concorre sul mercato o lo si sabota, in ogni caso bisogna farci i conti. Per questo i lavoratori della conoscenza la utilizzano come un’arma selvaggia, hanno capito oramai che proprio lì, sul campo del sapere si combatte la vera battaglia. Si è parlato, giustamente, di saperi di parte e di classe, oggi il capitale vive il paradosso di avere bisogno e paura del nostro cervello, per questo il concetto di libertà torna ad essere il più potente, ci si batte per i liberi saperi e non è soltanto uno slogan.
Gelmini, Tremonti, Brunetta sono all’attacco con lo spirito del capitale in crisi, sanno che devono colpire duro, ma che ogni crisi è un’opportunità di ristrutturare, quello che forse dimenticano, o che non possono evitare, è che sia anche un’opportunità per noi, soggetti sociali molteplici colpiti dalla scure. L’opportunità di ritrovarci e cogliere il senso dei tanti discorsi fatti in questi anni dalla talpa che scavava, uno su tutti: se il sapere, la mobilità, la cooperazione sono diventate centrali, allora siamo in grado di bloccare la produzione e il 17 è stato, non dimentichiamocelo, uno degli scioperi più efficaci degli ultimi anni, come si capisce dalle parole di De Corato che, il giorno della manifestazione, inveisce contro questi studenti che bigiano e bloccano tutto almeno una volta alla settimana.
Se questo è il carattere delle mobilitazioni, significa che siamo ben oltre la mera conoscenza del decreto, per rispondere a MariaStella Gelmini, lo abbiamo letto, o ne abbiamo condiviso la portata, ma questo non è nè l’inizio nè la fine, eravamo stanchi della vecchia università, stanchi dei baroni, delle fondazioni, dei fondi privati, dei ricatti e a chi taglia di netto milioni di euro possiamo dire soltanto: "dovete darci il denaro e poi ne riparliamo, poi". Respiro lungo, una legge già passata e una lotta che non ha intenzione di stancarsi, una composizione meticcia, mille colori che riempiono una piazza, una attitudine selvaggia, forza intelligente, conoscenza della mappa, strada per strada, aula per aula, voglia di fare piazza pulita, intenzione di ricominciare, tanti giovani incazzati, cioè una moltitudine... sembra che, almeno potenzialmente stiamo marciando verso Parigi, quando, seppure in maniera complessa le Banlieues e i lavoratori della conoscenza hanno lottato assieme e vinto.
Non bisogna amare le mitologie, dunque torniamo a Milano, in Italia, dopo avere girato lo sguardo al mondo, la sfida però è proprio questa, inventare ed essere un movimento nuovo, non per la lettura sociologica dei giornali, non in modo retorico ma nella pratica dei conflitti e nella produzione della nostra vita, inaugurando una stagione in cui accumulo e rottura possano essere una sola cosa. Collettivo di Scienze Politiche - Milano
Collettivo Aut.Art - Accademia di Belle Arti di Brera 1 e 2
Collettivo di Mediazione culturale - Sesto San Giovanni
Alcuni studenti di: Festa del Perdono, Politecnico, Bicocca.
Ci sentiamo metropolitani e nessuno vede il motivo di mettere a punto un programma, di tracciare prima una strada. Sarà la fiducia nell’intelligenza collettiva, o una nuova idea del territorio, ma la mobilitazione procede tappa per tappa, con l’unica certezza che abbiamo cominciato per non fermarci più. Una delle paure più grosse, ad esempio, è quella di chiudersi dentro atenei e facoltà, quella dell’occupazione ad oltranza, non è amore per la legalità costituita, solo non c’è rimpianto per gli anni delle lotte perdute, né ansia di scegliere la prima cosa che viene in mente. Probabilmente è abitudine all’uso dell’intelligenza, a prevedere su un futuro incerto, lavorando su una rosa di possibilità, un significato, un segno, per poi farlo esplodere.
Chiudiamo i cancelli per aprirli e invadere le strade e le piazze, blocchiamo la didattica per riprendere la formazione, riaprire le libere università e accademie. Lezioni in piazza, blocchi a singhiozzo, cortei interni, occupazioni a tempo indeterminato, pratiche di autoformazione e di autogestione, blocchi del traffico, invasioni delle stazioni, assedi ai senati accademici, ai provveditorati, ai ministeri, ai ministri hanno questo tratto in comune, è una protesta selvaggia perchè può applicare la forza ovunque, mentre la accumula, in questo senso non ha regole nè binari che non siano quelli pragmatici dell’efficacia e della longevità.
A Milano non esistono cittadelle universitarie, ma una diffusa rete connettiva di produzione del sapere fatta di licei, scuole professionali, scuole altamente professionalizzanti alternative alle università, alcuni atenei privati di alto livello, la Statale, con due sedi in centro a Milano, una a Sesto San Giovanni e la zona delle facoltà scientifiche, chiamata città studi, a nordest, vicina alla maggior parte dei dormitori universitari (quelli che non sono a S.Leonardo o a Corvetto), e alla sede principale del Politecnico, università di punta dell’Aquis. Ancora c’è l’altra sede del Politecnico a Bovisa (profondo nordovest), la Bicocca, con la sua organizzazione separata e il suo prorettore, che la notte pare una città fantasma.
Aggiungendo a tutto questo la precarietà della vita e il conseguente scorrere disomogeneo del tempo, si capisce come lungo le linee del reticolo del sapere e della formazione non vi sia lo spazio per la costruzione di socialità e di cooperazione libera. La "comunità" che caratterizzava i templi della formazione pubblica non esiste più, è stata cancellata, ma non è il caso di piangere sul latte versato, perchè il suo affondare si porterà dietro la casta baronale, che ne illuminava la via inquadrandola e facendone gerarchia.
Oggi si tratta di realizzare un nuovo territorio, è la suggestione, antica come il mondo, di fondare città, qualcuno lo chiama esodo, ma è semplicemente sperimentare forme di vita, scoprire che si può imparare senza subire la lezione di politiche pubbliche di un apostolo di Friedman e che si può festeggiare la sera nella propria facoltà, per di più senza spendere lo stipendio di una settimana.
Finalmente ci si sente studenti, un pezzo della fauna precaria che sa di poter combattere in un posto preciso, dove va a lezione! Per questo assume una importanza l’assemblea di facoltà... della Statale? Si quella di Sesto San Giovanni!, universitario? No dell’Accademia di Belle Arti! E’ una nuova idea, se non di comunità, sicuramente di comune: territorio comune, obiettivo comune, condizione comune, passioni comuni.
E’ intelligenza che non è cultura, non ha nulla di sacrale. Con l’intelligenza e la creatività oggi ci si guadagna il pane, ma non solo, si surfa la legalità e la burocrazia, si concorre sul mercato o lo si sabota, in ogni caso bisogna farci i conti. Per questo i lavoratori della conoscenza la utilizzano come un’arma selvaggia, hanno capito oramai che proprio lì, sul campo del sapere si combatte la vera battaglia. Si è parlato, giustamente, di saperi di parte e di classe, oggi il capitale vive il paradosso di avere bisogno e paura del nostro cervello, per questo il concetto di libertà torna ad essere il più potente, ci si batte per i liberi saperi e non è soltanto uno slogan.
Gelmini, Tremonti, Brunetta sono all’attacco con lo spirito del capitale in crisi, sanno che devono colpire duro, ma che ogni crisi è un’opportunità di ristrutturare, quello che forse dimenticano, o che non possono evitare, è che sia anche un’opportunità per noi, soggetti sociali molteplici colpiti dalla scure. L’opportunità di ritrovarci e cogliere il senso dei tanti discorsi fatti in questi anni dalla talpa che scavava, uno su tutti: se il sapere, la mobilità, la cooperazione sono diventate centrali, allora siamo in grado di bloccare la produzione e il 17 è stato, non dimentichiamocelo, uno degli scioperi più efficaci degli ultimi anni, come si capisce dalle parole di De Corato che, il giorno della manifestazione, inveisce contro questi studenti che bigiano e bloccano tutto almeno una volta alla settimana.
Se questo è il carattere delle mobilitazioni, significa che siamo ben oltre la mera conoscenza del decreto, per rispondere a MariaStella Gelmini, lo abbiamo letto, o ne abbiamo condiviso la portata, ma questo non è nè l’inizio nè la fine, eravamo stanchi della vecchia università, stanchi dei baroni, delle fondazioni, dei fondi privati, dei ricatti e a chi taglia di netto milioni di euro possiamo dire soltanto: "dovete darci il denaro e poi ne riparliamo, poi".
Non bisogna amare le mitologie, dunque torniamo a Milano, in Italia, dopo avere girato lo sguardo al mondo, la sfida però è proprio questa, inventare ed essere un movimento nuovo, non per la lettura sociologica dei giornali, non in modo retorico ma nella pratica dei conflitti e nella produzione della nostra vita, inaugurando una stagione in cui accumulo e rottura possano essere una sola cosa.
Collettivo Aut.Art - Accademia di Belle Arti di Brera 1 e 2
Collettivo di Mediazione culturale - Sesto San Giovanni
Alcuni studenti di: Festa del Perdono, Politecnico, Bicocca.
Discorso di Piero Calamandrei sulla difesa scuola pubblica
Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950
di Mariagrazia Sala
[Pubblicato in Scuola democratica, periodico di battaglia per una nuova scuola, Roma, iv, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1-5]
Cari colleghi,
Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università [...]. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po' vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c'è qualche cosa di più alto. Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l'art. 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà [...].
La scuola, come la vedo io, è un organo "costituzionale". Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola "l'ordinamento dello Stato", sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l'organismo costituzionale e l'organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell'organismo umano hanno la funzione di creare il sangue [...].
La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall'afflusso verso l'alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l'alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società [...].
A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.
Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. » l'art. 34, in cui è detto: "La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi". Questo è l'articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com'è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l'accento su quel comma dell'art. 33 della Costituzione che dice cos": "La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi". Dunque, per questo comma [...] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione [...].
Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell'art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l'espressione di un altro articolo della Costituzione: dell'art. 3: "Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali". E l'art. 151: "Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge". Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni [...].
Quando la scuola pubblica è cos" forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell'articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.
La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: (1) che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. (2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c'erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l'espressione, "più ottime" le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.
Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l'ipotesi, cos" astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Cos" la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.
Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: (1) ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest'ultimo è il metodo più pericoloso. » la fase più pericolosa di tutta l'operazione [...]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito [...].
Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell'art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: "Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato". Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche [...]. Ma poi c'è un'altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la "frode alla legge", che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla [...]. E venuta cos" fuori l'idea dell'assegno familiare, dell'assegno familiare scolastico.
Il ministro dell'Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a "stimolare" al massimo le spese non statali per l'insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno [...].
Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? » un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica.
Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l'arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l'arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! [...]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito [...].
Poi, nella riforma, c'è la questione della parità. L'art. 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: "La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali" [...]. Parità, s", ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo Stato, lo dice lo stesso art. 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo Stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo Stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo Stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità [...].
Però questa riforma mi dà l'impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c'era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c'è il cacciatore con il fucile spianato. » la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell'avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.
E poi c'è un altro pericolo forse anche più grave. » il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. » il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l'onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l'idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c'erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l'italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.
E c'è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. » accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d'Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell'avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.
Il CDZ 4 ha ricordato Vittorio Foa
situazione di degrado Parco in Viale Bacchiglione
Milano, 23 ottobre 2008
All’Assessorato Decoro e Arredo Urbano del Comune di Milano;
del Settore Arredo Urbano del Comune di Milano;
del Settore Parchi e Giardini del Comune di Milano;
Alla Direzione AMSA del Comune di Milano;
della Commissione Territorio del Consiglio di Zona 4 di Milano;
Constatato
Capogruppo Lista Uniti con Dario Fo per Milano
Consiglio di Zona 4 Milano
Modifica rotte aeree
Milano, 23 ottobre 2008
dell'Assessorato alla Assessore alla Mobilità, Trasporti, Ambiente del Comune di Milano;
del Settore Ambiente del Comune di Milano;
del Consiglio di di Milano;
del Presidente della Commissione Territorio, Viabilità e Ambiente del Consiglio di Zona 4 di Milano;
pc Direzione della SEA
Capogruppo Lista Uniti con Dario Fo per Milano
Consiglio di Zona 4 Milano
presenza pattuglie Vigili corsia autobus Viale Umbria
Milano, 23 ottobre 2008
Del Settore alla Mobilità del Comune di Milano;
del Comando della Polizia Muncipale di Zona 4 di Milano;
della Commissione Territorio, Viabilità e Ambiente del Consiglio di Zona 4 di Milano;
pc Direzione della SEA
Capogruppo Lista Uniti con Dario Fo per Milano
Consiglio di Zona 4 Milano
Nuove resistenze: Roberto Saviano
Nuove Resistenze: Roberto Saviano 22.10.2008
Ci sono momenti in cui la parola Resistenza si invera drammaticamente nel presente e in quei momenti la lotta di liberazione non rappresenta solo un patrimonio storico, ma diventa un’esperienza viva di cui tutti siamo ancora testimoni e alcuni, più consapevoli e coraggiosi, protagonisti. Il caso di Roberto Saviano ricorda, proprio quando diventano sempre più frequenti i tentativi di rimuovere o snaturare la memoria storica del nostro Paese, che la Resistenza, intesa come sforzo per vedere concretamente realizzati i principi della democrazia e dello stato di diritto, non è finita. Continua la Resistenza nel pensiero e nell’azione di chi lotta per una società di uomini e donne liberi di esercitare i fondamentali diritti costituzionali: il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute, diritti oggi messi fortemente in discussione dal diffondersi del lavoro precario, dall’attacco durissimo alla Scuola e alla Sanità pubblica. Forse fino alle recenti minacce contro Saviano, molti di noi però non pensavano di dover difendere la libertà stessa di parola, il diritto costituzionalmente sancito di esprimere le proprie idee senza temere per la vita. Invece è così; e ci sembra di essere ricacciati violentemente indietro nel tempo o proiettati in luoghi del globo dove la sopraffazione e la violenza regolano normalmente i rapporti sociali e inquinano le istituzioni. Roberto Saviano, che ha avuto il coraggio di parlare, di denunciare un’organizzazione criminale che controllando territorio, appalti e lavoro impedisce di fatto l’esercizio di tutte le libertà e le garanzie democratiche, è quindi un giovane resistente. Ma la storia ci ha insegnato che la Resistenza non è stata opera esclusiva dei combattenti, è storicamente accertato che dietro ogni partigiano vi erano altri italiani che lo sostenevano nei modi più diversi, un tessuto sociale che aveva maturato una nuova coscienza democratica. Senza questa adesione collettiva alle ragioni della lotta antifascista, senza la solidarietà e il contributo di tante persone che non imbracciarono il fucile, ma aiutarono e protessero i partigiani, la Resistenza sarebbe stata sopraffatta. Allora noi, oggi, non dovremmo domandarci se Saviano debba o possa resistere rimanendo in Italia, dovremmo piuttosto assumerci in prima persona la responsabilità e l’impegno di lottare per la piena attuazione di tutti i principi e i diritti democratici sanciti dalla Costituzione repubblicana.Non basta essere solidali con Saviano. Occorrono forme dirette di mobilitazione e di resistenza di tutta la società civile.
Anpi Lambrate Ortica
A 70 anni tornano le leggi razziali
L’ANPI NAZIONALE: a 70 anni dalla loro
promulgazione, tornano le leggi razziali
L’ANPI è schierata con tutte le forze sociali che in questi
giorni si stanno mobilitando pacificamente per una scuola
libera e giusta, conforme ai principi costituzionali.
La mozione approvata dalla maggioranza che istituisce
classi separate, per i bambini immigrati e per quelli italiani,
ben lontana dall’avviare un processo di integrazione nel
nostro Paese, di fatto legalizza la discriminazione. A 70 anni
dalla promulgazione delle leggi razziali, è inconcepibile e
lesivo dei diritti civili faticosamente conquistati ripercorrere
una storia sciagurata e sotterrata dalla democrazia.
Roma, 22 ottobre 2008
SALVIAMO L’ITALIA SALVIAMO IL PIANETA
SALVIAMO L’ITALIA SALVIAMO IL PIANETA
MILANO Giovedì 23 ottobre alle ore 17,30 Piazza San Babila
PRESIDIO E APPELLO AL PREFETTO
PER CHIEDERE CHE
Il Governo Italiano firmi subito le misure dell’Unione Europea sui Cambiamenti Climatici - 20% di tagli delle emissioni di CO2; 20% in più di efficienza energetica; 20% di energiea da fonti rinnovabili ENTRO IL 2020
L’Italia non guidi il nuovo patto di Varsavia dei Paesi più arretrati e inquinanti dell’Unione Europea;
Il Governo Italiano la smetta di “illudersi e di illudere” con il nucleare ma scelga l’efficienza energetica, il solare, l’eolico, le geotermia, le biomasse.
Che il sistema delle imprese del nostro paese scelga innovazione e modernità e non scelga un isolamento storico con arretratezza e inquinamento
Appello Uniriot : non pagheremo noi la crisi!
Per un autunno di conflitto e autonomia!
http://www.uniriot.org
Un’assemblea Uniriot particolare quella tenutasi alla Sapienza il 1 ottobre: perché la rete organizzata della cooperazione sociale delle facoltà ribelli cresce e si diffonde da anni e soprattutto perché all’interno di una crisi globale ci troviamo ad affrontare una riforma che di sicuro segna il superamento definitivo dell’Università pubblica così come l’abbiamo conosciuta fino adesso.
Il nostro desiderio di autonomia contro sacrifici e miseria! Non abbiamo alternative!
ASSEMBLEA DELLE FACOLTA’ RIBELLI – UNIRIOT _ Roma 1 ottobre 2008