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Il Blog di Alessandro Rizzo | www.partecipaMi.it
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Lunedì, 27 Novembre, 2006 - 21:43

comunicato stampa Commissione Ambiente Partito Umanista

Milano, 27 novembre 2006


Truffa sui fondi destinati alle fonti di energia rinnovabile
 
 
Il Partito Umanista protesta contro la vergognosa votazione del 22 novembre al Senato e di pochi giorni prima alla Camera, con cui si rinnova l’enorme truffa dei cosiddetti incentivi "CIP6".
 
Su ogni bolletta ENEL i cittadini pagano dal 1992 una sovrattassa stabilita dall'Unione Europea destinata ad incentivare le fonti di energia rinnovabile quali il solare, eolico, geotermico e biomasse, per raggiungere gli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto e lottare quindi contro i cambiamenti climatici. Ma lo Stato Italiano, ingannando i cittadini e favorendo le lobbies del settore petrolifero e degli inceneritori, ha illegalmente incluso tra i beneficiari gli inceneritori e le raffinerie. 
 
Nel 2005 su 4,7 miliardi di euro concessi per le fonti rinnovabili, solamente 1,7 miliardi sono realmente stati destinati allo sviluppo delle energie rinnovabili, mentre ben 3 miliardi sono stati spesi per pagare scarti di raffineria come il bitume e l’incenerimento dei rifiuti, che nulla hanno a che vedere con la produzione di energia pulita.
 
E' da anni che le associazioni e reti ambientaliste protestano contro questa anomalia tutta italiana all'interno dell'U.E., per la quale l'Italia è stata posta sotto infrazione dall'Unione Europea. Ma nel voto in parlamento di settimana scorsa, la modifica di legge è stata un'altra volta impedita dal centrodestra e centrosinistra. Siamo particolarmente indignati che i DS, la Margherita, i Radicali, i Verdi e Rifondazione si siano allineati con la destra, cedendo alle pressioni delle lobbies del settore petrolifero e degli inceneritori.
 
Il Partito Umanista denuncia questa truffa e chiede l'immediata modifica della legge italiana, in modo da recepire il regolamento CE 77/2001 relativo ai certificati verdi.
 
 
Commissione Ambiente
Partito Umanista
 

Sabato, 25 Novembre, 2006 - 20:39

Inaugurata la nuova sezione dei Ds in Zona 3

CENTO GIOVANI E UN MINISTRO

E' stata inaugurata ieri pomeriggio la nuova sezione dei Democratici di Sinistra in zona 3.
Il primo incontro ha avuto come tema il precariato e i nuovi lavoratori  e un ospite d'eccezione, il Ministro del Lavoro Cesare Damiano.
Dopo i saluti di Franco Mirabelli, Segretario provinciale dei Ds, Filippo Penati, Presidente della Provincia di Milano e Pierfrancesco Maran, 26enne consigliere comunale, il dibattito moderato da Giulia, studentessa universitaria di Scienze Politiche, ha avuto inizio.
La formula è stata quella del "botta e risposta" tra il pubblico e il Ministro Damiano e sono stati toccati vari argomenti, dalla Finanziaria al futuro dei lavoratori precari, dalla legge Biagi agli infortuni sul lavoro.
Il dato dei presenti, circa 150 con una netta maggioranza di studenti, fa ben sperare per il futuro della nuova sezione e per le prossime iniziative.

Venerdì, 24 Novembre, 2006 - 18:35

Rapporto sul seminario "Terra e usi civici in Italia"

Seminario organizzato dall'Associazione "Ecologiapolitica. Ricerche per l'alternativa"
Terrafutura, Fortezza da Basso, Firenze, 8 aprile 2005
A cura di Giovanna Ricoveri

Il seminario è stato introdotto da 4 relazioni (vedi le sintesi sottoriportate, Allegato A), tenute rispettivamente da Franco Carletti, commissario agli usi civici, che ha spiegato come e perché gli usi civici fanno parte di “un passato che non passa”; Riccardo Bocci, agronomo, che ha raccontato l’esperienza negativa di privatizzazione delle terre pubbliche avviata dalla Regione Toscana alla fine degli anni 1990; Fabio Parancandolo,docente a Cagliari di geografia umana, che ha parlato degli usi civici in Sardegna e ha messo in guardia dal rischio che il terreno rurale diventi “un puro spazio festivo” per i benestanti della città; Emilio Molinari, Vice Presidente del Comitato italiano per un Contratto mondiale sull’acqua, che ha ripercorso la mobilitazione mondiale contro la privatizzazione del servizio idrico e ha sostenuto che esiste un “uso civico” di ogni bene comune. Per l’acqua, ha detto, l’uso civico potrebbe essere il consumo minimo di acqua da bere necessaria a ciascuno per sopravvivere.

L’ipotesi e la proposta generale poste a base del seminario (vedi Allegato B) erano (e sono) che la terra è il bene comune la cui privatizzazione e mercificazione risale tanto indietro nel tempo, in Occidente, da far passare il secondo piano il valore simbolico e concreto dei 6 milioni di ettari di terre invendibili perché gravate da usi civici, ancora esistenti in Italia. Persino la sinistra critica è “distratta” rispetto a questa realtà che considera nella migliore delle ipotesi un reperto storico, e rinuncia ad avvalersene nella costruzione dell’alternativa. Di qui la proposta di difendere e valorizzare quei 6 milioni di ettari di terre collettive, e non semplicemente come un reperto storico.

La proposta integrativa avanzata da Alberto Magnaghi, bene accolta dai partecipanti al seminario - e successivamente approvata dalla Rete del Nuovo Muncipio - è che la difesa dei terreni gravati da usi civici diventi un laboratorio per rivalutare il ruolo degli agricoltori quali fornitori dei servizi di terziario avanzato necessari alla messa in sicurezza del territorio; servizi oggi praticamente inesistenti, che possono essere assicurati solo da chi vive sul luogo, nelle campagne. Un’agricoltura di questo tipo potrebbe fornire non solo alimenti di qualità ma anche servizi di qualità, e potrebbe diventare fonte di occupazione appetibile i giovani delle città. Dovrebbe necessariamente basarsi sulla geografia dei corsi d’acqua, nel senso indicato da Giorgio Nebbia in diverse opere e ultimamente in “Il potere ai bacini idrografici” pubblicato dal Quaderno della rivista CNS-Ecologia Politica, «Beni pubblici tra tradizione e futuro” (Emi, Bologna 2005).

Allegato A
Sintesi delle relazioni introduttive

Franco Carletti, Nozioni fondamentali sugli usi civici e sulla loro odierna rilevanza
1. Il principale autore in materia di usi civici è oggi, non solo in Italia o in Europa, il prof. Paolo Grossi dell’Università di Firenze che, pur segnandone le differenze, riconduce per un verso tali diritti ad una forma di proprietà fondiaria, per altro verso alla sovranità spettante a tutti i gruppi umani sul territorio di proprio interesse.
Sotto il primo profilo, la differenza che originariamente distingue i diritti o possessi collettivi dalla proprietà fondiaria di tradizione romanistica si può ridurre al fatto che i primi appartengono ad una comunità ben identificata e congiuntamente a ciascuno dei suoi membri, dai quali soltanto possono essere goduti in forma unitaria e indivisibile, mentre ogni altra proprietà è per principio collegata ai singoli individui e, quando questi sono numerosi, è suscettibile di godimento suddiviso, secondo il sistema delle quote ideali di appartenenza, suscettibili di ricevere un apprezzamento monetario sul mercato.
I beni civici sono invece destinati a rimanere per sé fuori commercio e destinati a beneficio della comunità proprietaria senza limiti di tempo – essi sono in altri termini incommerciabili e inusucapibili.
2. Questi principi derivano dal principio organizzativo stesso che informa la proprietà collettiva e trovano riscontro in alcune situazioni dove alla scarsità delle risorse territoriali corrisponde una diffusa e spontanea domanda di accesso. Un esempio sono i castori del Nord America, che all’inizio del secolo erano in procinto di estinzione per l’eccessivo e incontrollato prelievo commerciale, cui si mise rimedio non già vietando la caccia in quanto tale e privandosi in tal modo delle risorse economiche che ne derivavano, ma imponendo ai cacciatori un controllo ravvicinato ed affidandolo ai diretti interessati – cioè alle guide locali, designate dalle Comunità - per interdire l’accesso dei cacciatori nei luoghi caratterizzati da qualche criticità (epidemie, carestie, migrazioni, ecc.). Analogamente si procede ancora oggi per quanto attiene alla pesca delle aragoste lungo la costa del Massachusetts.
3. Il fatto che simili misure organizzative siano emerse nel Nuovo Mondo è particolarmente significativo e mostra come non sia sufficiente professare il più deciso e assoluto liberismo, per impedire forme di organizzazione economica suscettibili di recuperare alcuni aspetti della proprietà collettiva.
Nel Vecchio Mondo però la proprietà collettiva ha radici di carattere storico, si collega cioè al costume di appartenenza e di prelievo in vigore nei secoli di mezzo ed ha subito un ridimensionamento irreversibile con il passaggio alla modernità.
Si calcola che, al momento della formazione del Regno d’Italia, la proprietà e i diritti collettivi interessassero non meno dell’80 % del territorio nazionale; oggi, dopo la forzata e spesso illegittima privatizzazione durata oltre 100 anni, non ne residuano più di 5-7 milioni di ettari – tra il 10 e il 15 % del territorio nazionale.
In considerazione della rarefazione o della scomparsa delle comunità proprietarie cui erano riservate e dalle quali venivano utilizzate in forma propria con indirizzo che oggi potremmo dire conservativo (conservativo della loro sostanza economica, non solo delle loro connotazioni esoteriche), queste terre hanno sollecitato gli appetiti più vari; alle problematiche tradizionali si sono sovrapposti oggi infatti nuove dinamiche sociali, imperniate soprattutto sugli interessi di coloro che senza alcun diritto tendono ad impadronirsene per utilizzarle e trasformarle in maniera esclusiva – escludendo cioè di fatto o di diritto gli unici interessi legittimati, quelli collettivi, e sacrificando gli interessi paesaggistici che vi si sono teoricamente sovrapposti.
Un’eco di queste dinamiche si trova nella legislazione regionale degli ultimi anni e soprattutto in quella degli ultimi mesi, per esempio laddove la Regione si riserva di legittimare i possessi abusivi a condizione che siano stati destinati all’edificazione e sia offerta una minima indennità monetaria calcolata di solito sui valori catastali (Regione Lazio, Legge 1/1986); ovvero laddove la Regione (Regione Lazio, legge 6/2005) si riserva la facoltà di autorizzare di propria iniziativa la vendita delle terre collettive, a prescindere dall’interesse e dalla richiesta delle comunità proprietarie ed assegnando i corrispettivi a un Ente terzo (il Comune che le rappresenta, ma non vi si identifica).
Queste innovazioni confliggono non solo con le disposizioni della legge nazionale che fanno divieto di alienare le terre civiche, ma anche più radicalmente con i principi generali della legge dello Stato che assegnano solo ai proprietari il potere di alienare i propri beni e garantiscono loro il controvalore. Esse configurano pertanto una vera e proprio forma di confisca senza indennizzo, come tale incostituzionale; configurano in ultima analisi un radicale imbarbarimento di tutto il diritto vigente, con rilevanti conseguente di tipo costituzionale.

Riccardo Bocci, La privatizzazione delle terre pubbliche in Toscana
Per capire la complessità delle dinamiche che riguardano il territorio non urbanizzato, vediamo cosa è successo, e continua a succedere, in Toscana negli ultimi anni. La Toscana è una regione da sempre amministrata dal centrosinistra, dove l’amministrazione manifesta una particolare attenzione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale in genere. Si può infatti parlare di modello agricolo toscano, intendendo con questo termine lo sviluppo di un’agricoltura non più legata alla produzione di beni, ma anche, o forse soprattutto, di servizi, come ad esempio l’agriturismo e l’agricoltura sociale. Ma non c’è solo questo. La Regione toscana è una delle animatrici a livello europeo della rete delle regioni OGM free e a livello internazionale della Carta sul Futuro del Cibo, redatta dalla commissione presieduta da Vandana Shiva.
Malgrado ciò, la realtà non è così rosea per le piccole e medie aziende. Gli ultimi censimenti dell’ISTAT, infatti, registrano una continua diminuzione del numero di aziende, con una presenza sempre più forte di grandi capitali (società, banche, grandi famiglie…). Inoltre, da diversi anni sono crescenti i conflitti sorti per questioni relative all’accesso alla terra e i prezzi ad ettaro sono arrivati a valori del tutto slegati dalla funzione agricola del terreno.
In questo panorama la Regione ha proceduto alla messa in vendita del patrimonio agricolo e forestale, attraverso la legge 9 del 29 gennaio 1997. Dopo avere reso disponibile ciò che fino a qualche anno prima faceva parte del demanio pubblico, gli enti locali hanno fatto un inventario dei loro beni individuando quelli suscettibili di vendita. La cultura della privatizzazione risulta ben evidente dal titolo stesso della legge dove si parla di “valorizzazione ed alienazione”: non può esistere valorizzazione senza appropriazione da parte di soggetti privati.
Con questo orizzonte culturale, la legge ha permesso la vendita, in due successivi bandi, di circa 345 beni, comprati in parte dai concessionari (40%) e da soggetti stranieri (5%). La legge ovviamente prevedeva la possibilità di avere vendite su progetto a condizioni particolari, legate alla presentazione di un progetto di valorizzazione del bene discusso con l’ente locale competente. Sono state poche, però, le richieste in tal senso e alla fine solo una quindicina di progetti hanno visto la luce.
Inoltre, a testimonianza dello stato di confusione che regna sulla consistenza del patrimonio agricolo e forestale pubblico, alcuni beni, inizialmente messi in vendita dagli enti locali, sono stati cancellati in seguito dall’elenco perché ci si è accorti che non era possibile alienarli: erano gravati ancora da usi civici!
La legge regionale del 1997 è stata un’opportunità persa per facilitare quel ritorno “alla terra” necessario per avere un territorio abitato e vissuto, non solamente spazio turistico ad uso dell’esercito delle seconde case. Per questo non bastava certo fare una legge di vendita; sarebbe stato necessario pensare a misure di sviluppo rurale più generali, in grado di offrire opportunità anche lavorative ai nuovi insediati, oltre ad una casa.

Fabio Parancandolo, Gli usi civici in Sardegna
Per comprendere la rilevanza che a tutt’oggi gli usi civici assumono nei sistemi di attivazione delle risorse agro-silvo-pastorali della Sardegna bisogna innanzitutto fare uno sforzo di decentramento politico. La particolare posizione geografica dell’isola ha difatti giocato un ruolo nel rallentare il dinamismo di processi di cambiamento socio-economico di lungo periodo, storicamente intervenuti assai tardi rispetto all’Italia peninsulare. Le condizioni di relativo isolamento della popolazione sarda hanno così per lungo tempo favorito (e questa situazione è valsa del resto anche per la Corsica) la conservazione di specifici istituti e consuetudini agrarie di tipo comunitario, funzionali al conseguimento della sussistenza su scala locale. Costumi che nel resto dell’Europa Occidentale erano stati più intensamente e sistematicamente soppiantati da modelli di agricoltura “borghese” orientati in primo luogo alla redditività commerciale delle produzioni.
Per svariati secoli dopo la dissoluzione dell’impero romano d’Occidente le comunità rurali sarde si erano auto-organizzate per trarre il loro sostentamento dai rispettivi territori di pertinenza, e malgrado la cospicua pressione fiscale esercitata sui vassalli dalle signorie feudali che si costituirono nell’isola nel tardo Medio Evo e in special modo sotto la dominazione catalano-aragonese, il sistema agricolo comunitario costituiva il modello prevalente di uso dei campi. Questo sistema comportava per ogni annata agraria la presa di decisioni al livello locale e in sede assembleare sulle modalità di esercizio delle pratiche agricole (semine, avvicendamenti, maggesi, ecc.). La cerealicoltura estensiva, attività di base del sostentamento rurale, era praticata su terre date “in concessione” alle comunità dai poteri centrali. Gli abitanti dei villaggi esercitavano d’altronde sui demani regi e feudali anche altri diritti di prelievo dei frutti della terra, quali le servitù di legnatico e di pascolo. La proprietà privata di terreni anche molto estesi era d’altronde presente, e lo stesso “popolo minuto” si avvaleva di piccoli orti e frutteti d’autoconsumo, rigorosamente recintati e protetti, che venivano posseduti ed ereditati a titolo individuale. Tuttavia il regime giuridico della proprietà privata della terra tendeva più che altro ad affiancarsi al sistema comunitario nella determinazione delle forme di governo del territorio. Anche la notevole importanza della pastorizia transumante faceva sì che i campi aperti fossero preferibili a quelli chiusi per un’efficiente attivazione delle risorse agrarie, e l’utilizzazione periodica collettiva dei seminativi da parte del bestiame (komunella o monte dei pascoli) si è protratta in certi casi quasi fino ai giorni nostri.
Tutti questi sistemi “flessibili” di uso collettivo e non necessariamente mediato dal denaro delle risorse naturali furono però aspramente combattuti dalla classe dirigente sabauda, la quale a partire dal XIX secolo allestì, emanò ed applicò una serie di provvedimenti legislativi e realizzazioni infrastrutturali che miravano ad una integrale privatizzazione fondiaria ed alla realizzazione nell’isola di una vera e propria società capitalistica di mercato. Le trasformazioni socio-territoriali che ne conseguirono provocarono alla lunga l’annientamento dei sistemi agricoli consuetudinari di villaggio. Ma anche a causa di forti resistenze al cambiamento esercitate specialmente dalle popolazioni di alcune aree interne, al giorno d’oggi il Commissariato Regionale per gli Usi Civici presume che esistano nell’isola circa ancora 500.000 ha di “residui feudali”, ovvero di terreni interessati da uso civico: un patrimonio non indifferente, che ammonta grosso modo al 10% dei cinque milioni di ha che sarebbero ancora presenti in tutta Italia. A detta dell’attuale responsabile del servizio, l’intervento del Commissariato nel controllo delle modalità d’uso dei demani civici rimasti nell’isola si ispira al principio di fondo che oggi l’uso civico è un bene ambientale la cui reviviscenza va tutelata. Pertanto non sono rari i casi in cui i poteri giurisdizionali vengono esercitati per limitare l’esuberanza di piani di valorizzazione delle terre civiche che sia pure sotto la benevola égida dell’uso turistico dei territori sembrano essere stati redatti da amministratori locali più attenti alle movimentazioni di denaro (con laute parcelle a tecnici e professionisti vari, infrastrutture, attrezzature e “cementificazioni” sovradimensionate, ecc.) che ad una effettiva e duratura tutela dei beni in oggetto.
Bisogna comunque riconoscere che si tratta di questioni controverse e di non facile soluzione. Da un lato non si può dire che i “cittadini illuminati” sbaglino nell’opporsi a trasformazioni intensive che pregiudicherebbero la conformità dei luoghi rurali ad una condizione ideale di cosiddetta natura incontaminata. Ma è anche vero che l’irrigidimento di questa impostazione corre il rischio di relegare il territorio rurale ad un ruolo di mero spazio festivo per la ricreazione edonistica di soggetti benestanti che non si pongono il problema di come sostenere e compensare gli abitanti delle aree rurali per le loro funzioni di potenziali (ri)produttori di cibi, saperi e paesaggi di qualità, che vanno a beneficio dell’intera società inglobante.
C’è ancora molta strada da fare perché le rappresentazioni sociali della natura si liberino dell’invadente tendenza alla costruzione di effimeri scenari paradisiaci, egemonizzati e controllati dai soli detentori del potere d’acquisto e non radicati nelle concrete pratiche di chi giorno per giorno conosce ed usa gli agro-ecosistemi. E’ tempo di tener conto della concreta e necessaria presenza nelle campagne di soggetti locali che non possono essere ridotti al ruolo etnico di pittoresche figurine da presepio. I problemi delle comunità rurali sono oggi problemi di tutta la società, e si potrà riconvertire il nostro stile di vita alla sostenibilità economica e sociale solo responsabilizzando tutti i soggetti sociali e promuovendo nuove forme di collaborazione tra città e campagne nel compito di ridefinire lo sviluppo entro i limiti che localmente e globalmente la natura pone all’economia. Vanno perciò studiate e poste in essere misure che conducano in tempi brevi a forme di remunerazione diretta o di agevolazioni perché le comunità detentrici di terre pubbliche o comunque di diritti d’uso civico sulla terra realizzino una forte presenza di attività autenticamente sostenibili nei loro territori, e bisogna fare in modo che queste iniziative ecocompatibili servano anche altrove da modello ed esempio per ulteriori percorsi di rigenerazione dei luoghi.

Emilio Molinari, La mercificazione dei beni comuni: dalla terra all’acqua

Credo sia stato più che mai opportuno riprendere a parlare di Usi Civici.
E parlarne oggi come fatto di estrema attualità, mentre si ripropone con forza la questione dei Beni Comuni e della loro mercificazione e mentre ovunque si stano liquidando gli ultimi residui di questi antichi diritti collettivi e comunitari.
In occidente, in particolare in Italia, si tratta di una liquidazione silenziosa che avviene istituzionalmente, con la complicità di quasi tutti i partiti.
Quando parliamo di Usi Civici, nella nostra cultura giuridica e consuetudinaria, parliamo e pensiamo a quei restanti circa 6 milioni di ettari di terreno di demanio civico, vincolati da diritti la cui titolarità è dei cittadini residenti di una comunità diritti di: pascolo, taglio del bosco, coltivazione ecc…un cospicuo residuo del passato, una proprietà comune e locale, sulla quale però a fronte di un disastro ambientale e urbanistico come quello del nostro paese, e al crescere della domanda di lavoro alternativo nei giovani, forse sarebbe bene che il movimento dei movimenti qualche parola e qualche azione in più cominciasse a pronunciarla e ad intraprenderla.
Ma poi se guardiamo il sud del mondo, questa questione delle terre collettive pone ancora il grande problema della terra e del suo uso democratico e partecipato da parte della comunità. Pensiamo al Chiapas e alle terre indigene, gli ejidos, spazzati via dagli accordi di libero commercio con gli USA, al Brasile, all’Ecuador, al Perù e alle terre di pascolo comunitario, altrettanto spazzate via dalla multinazionale Benetton…
Inoltre quando parliamo di Usi Civici siamo soliti parlare di terre, e di terre comuni, non pensiamo ad altri beni fondamentali come l’acqua, che pure nel passato sono stati esercitati.
Oggi in merito all’acqua rimane solo l’Uso Civico della pesca per alcuni fiumi ecc…, ma non fu così nel Medio Evo dove tali usi erano numerosi ed estesi a sorgenti, fontane e tratti di fiume.
Attorno a Milano fino agli anni ‘50 particolari usi civici vincolavano quel particolare fenomeno dei fontanili che rendeva la campagna milanese tra le più fertili del mondo.
Ecco, io vorrei introdurre nella discussione sugli usi civici, questa questione dell’acqua e proporre perciò una estensione della riflessione di prospettiva politica, culturale e strategica, a partire dal portato politico culturale che gli Usi Civici sottendono. Una estensione prima di tutto ad altri beni comuni come appunto l’acqua, ma anche il materiale genetico, il cibo e l’agricoltura locale, la foresta, ecc..e poi che la riflessione si estenda dal locale, all’universalità di certi diritti e di certi beni comuni.
Mi spiego. Oggi la questione dell’acqua bene comune e diritto umano, si pone come questione moderna e drammatica. Come terreno di una riflessione di estrema attualità, per le comunità e per il sistema politico mondiale. E questo perché siamo di fronte a due elementi che cambiano completamente la natura delle convinzioni che di essa gli uomini hanno:
1° l’acqua potabile, dolce e buona, è esauribile e va esaurendosi rapidamente.
2° l’acqua sta per essere universalmente mercificata e considerata come una qualsiasi materia prima o prodotto commerciale.
Questo cambia tutto.
Negli ultimi 40 anni di vita del pianeta abbiamo consumato, o reso inutilizzabile, più della metà dell’acqua di cui disponevamo e entro il 2025 è previsto il raddoppio dei consumi e la consumazione di un altro terzo delle attuali disponibilità.
Cina ed India vedono le proprie falde ridursi di un metro e mezzo all’anno. Ma il loro sviluppo chiede consumi esponenzialmente sempre maggiori.
Negli USA, principali consumatori di acqua del pianeta, con una media per uso domestico di 800 litri/persona/giorno, contro la media europea di 170 litri /persona/ giorno, stati come la California rischiano ormai la desertificazione e si pensa di rifornirli attraverso l’acqua dal Canada.
Sono solo gli esempi delle due aree strategiche del mondo, ma in ogni paese è possibile registrare il grido di dolore delle proprie risorse idriche.
Contemporaneamente a questo grande indicatore, che ci dice però quanto siamo ormai dentro ad una crisi ambientale dai connotati di crisi di civiltà, si afferma universalmente la cultura politica, legislativa, della mercificazione del bene acqua.
Un vero e proprio passaggio epocale di portata storica simile e forse più drammatica della privatizzazione delle terre comuni iniziata nell’Inghilterra del 1600.
E ciò avviene attraverso tre direttrici precise, attuate da altrettanto precisi atti politici amministrativi:
1° la privatizzazione della gestione dei servizi idrici attraverso affidamenti a società private, della durata di 25-30 anni.
Attuata nel mondo attraverso le decisioni prese dai negoziati del WTO, le politiche e le leggi dei singoli stati giù fino alle delibere del più piccolo comune, il servizio idrico va dato in gestione a delle multinazionali come Suez o Vivendi o come in Italia alle SPA miste nelle quali gli enti pubblici entrano con i propri capitali, le proprie conoscenze accumulate negli anni e gli amministratori si trasformano in azionisti, producono fusioni, si trasformano a loro volta in holding, vanno all’assalto della gestione dei servizi dei paesi in via di sviluppo. ACEA di Roma è l’esempio più chiaro di questo intreccio pubblico -privato.
Dove i confini tra imprese e pubblica amministrazione si confondono e si confondono i ruoli di controllore e controllato, dove in sostanza è la politica che si privatizza.
2° la privatizzazione del bere, consegnato alla bottiglia e scorporato dalle funzioni del rubinetto in casa che viene confinato al solo uso del lavarsi e dei servizi igienici.
Tutta la pubblicità, e parte della politica, orienta il consumatore d’acqua verso il prodotto industriale in bottiglia che si compra a sempre più caro prezzo nei supermarket e nei bar, dove si legifera in tale senso con divieti sull’igiene (sic), dove un assessore di Milano può sostenere che siccome l’acqua di Milano è buona bisogna metterla in bottiglia e venderla.
Con ciò sparisce il diritto al bere e lo stesso concetto di servizio.
Si crea un vero e proprio assalto alle sorgenti alpine, date in concessione mineraria per 90 anni a multinazionali come Nestlè, Danone, Coca Cola.
Si invade il mondo di rifiuti di plastica, 10 miliardi di bottiglie nella sola Italia ogni anno. E di conseguenza di inceneritori.
3° la privatizzazione dei corsi d’acqua attraverso le grandi opere: le dighe, la canalizzazione, i grandi invasi, la produzione di energia elettrica, le politiche della banca mondiale, la gestione per 30 anni di questi impianti alle multinazionali dell’energia elettrica, spesso le stesse che gestiscono gli acquedotti ( Enel Idro, ENI acqua) e di conseguenza la gestione dei prelievi dell’acqua per l’agricoltura ecc..
E’ la dimensione strategica che sottende tale politica.
Basti pensare alla Turchia e al progetto GAP di dighe sul Tigri e Eufrate, con le quali controlleranno il flusso di acqua all’Iraq e alla Siria.
Basti pensare alla politica USA nei confronti della Colombia dove, in nome della lotta al narcotraffico, si giustifica una presenza militare nel cuore dell’Amazzonia dove scorre il 25% dell’acqua di superficie di tutta la Terra, o la presenza sempre USA e militare, alle tre frontiere: Brasile, Argentina, Paraguay per la lotta al terrorismo, ma nel cuore dell’acquifero più grande del mondo, l’acquifero del Guarany.
L’insieme di queste politiche non solo traccia scenari inquietanti per il futuro dell’umanità ma situazioni insostenibili del presente.
Che dire della città di Manaus nel cuore dell’Amazzonia, dove ogni giorno vi scorre tanta acqua in grado di alimentare per 10 anni una città come New York, ma dove i servizi idrici gestiti da una multinazionale come Suez non arrivano nelle case dei quartieri poveri perché non possono pagare la tariffa?
Che dire dei barrios di Buenos Aires impoveriti dalla crisi economica che si vedono tagliare l’acqua da parte della Suez?
Che dire di Las Vegas città nel deserto che ha un consumo pro capite domestico di 1400 litri/giorno? E della Groenlandia che mette l’acqua dei ghiacciai in bottiglia e la vende nei mercati statunitensi a 10 dollari la bottiglia con l’etichetta Borealis? E della Coca Cola che mette in bottiglia l’acqua dei rubinetti di Londra a 3,5 dollari al litro?
Occorre chiamare la politica ad una riflessione moltiplicando e potenziando le capacità di informare e comunicare.
Occorre chiederci come è stato possibile che nel giro di pochi decenni quella che è stata la “mission” di tutta la politica del ‘900, e cioè portare l’acqua sicura gratuitamente e a cura della fiscalità generale, nelle case dei cittadini, che non da malattie, e i servizi igienici e le fogne, si sia trasformata nella missione di consegnarla al businnes delle corporations?
Nel 1906 il primo acquedotto italiano fu fatto da un governo liberale, privatizzatore delle terre a uso civico, ma che sull’acqua pensava in termini di res pubblica.
Nel 1928 fu messo in funzione il Consorzio Acque Potabili della provincia di Milano, l’acqua nelle case dei Milanesi e di oltre 100 comuni della provincia, e fu un governo fascista a realizzarlo.
Come è possibile che alle soglie del terzo millennio, la politica tutta pensi di svendere servizi idrici, sorgenti e fiumi ?
Ecco cosa intendo per estensione della cultura dell’uso civico e del bene comune.
Intendo l’affermarsi graduale per battaglie, vertenze locali ed universali e condivisioni di una cultura del bene comune. Una cultura alternativa che affermi appunto la titolarità del diritto all’acqua e ai beni comuni al cittadino. Una cultura che coniughi tale titolarità sul territorio localmente, ma sappia affermarla universalmente alla cittadinanza mondiale. Che si traduca in deliberazioni, leggi e dichiarazioni universali.
Che affermi l’umanità come soggetto titolare appunto del diritto umano, di bere di avere la quantità di cibo sufficiente, di salute, ecc..
Una cultura tutta da costruire, che prende dentro la grande questione della partecipazione, ma delinea un nuovo concetto di pubblico in contrapposizione alla disastrosa cultura del privato e del mercato, che non è la statalizzazione dei beni, e nemmeno la municipalizzazione, è la proprietà comune, la comunanza locale e universale allo stesso tempo, la gestione collettiva.
Difficile?
Estremamente difficile, ma il movimento muove già alcuni passi in questa direzione:
in Bolivia l’aspra lotta ha cacciato le multinazionali dell’acqua e del gas, e i cittadini si sono organizzati in coordinadoras dell’acqua per la gestione partecipata del bene. In Uruguay un referendum ha vinto con l’80% dei suffragi e impone la modifica della costituzione per stabilire che l’acqua è un diritto umano e non è mercificabile in alcun modo, ecc…
Ridefinire il concetto di pubblico locale e universalizzare il diritto a partire dai beni comuni, è la nuova narrazione, che fa i conti con i fallimenti del ‘900 e con la dimensione della crisi ambientale, della democrazia e della politica. In questo senso si inserisce e si attualizza la questione degli usi civici
Nel libro di Giovanna Ricoveri sui beni comuni, che trovo di notevole interesse, c’è un pezzo scritto da Giorgio Nebbia che apprezzo in particolar modo e che mi permetto di affiancarlo ad uno scritto che ho fatto tempo fa per l’Osservatorio dei Balcani dal titolo il “Federalismo dell’acqua”.
Giorgio parla di riscrivere le leggi del governo dell’acqua dentro confini politico idrogeologici, e precisamente quelli dei bacini, ricondurre a questi ambiti e alla disponibilità del bene, la pianificazione degli usi, l’integrazione dei cicli ecc…
La legge Galli sancisce la proprietà pubblica dell’acqua, parla di cicli integrati, individua i bacini come confini, ma poi tratta solo dell’acqua per usi domestici non riconduce tutto il governo dell’acqua e dei suoi usi all’interno dei confini dei bacini, introduce la privatizzazione e l’ambizione dei politici impone agli Ambiti Territoriali Ottimali i confini delle province e così salta tutto.
Bisogna riscrivere le leggi a partire dalle legge Galli, ma forse è lecito “sognare” qualcosa di più, qualcosa di più alternativo.
Forse è lecito pensare a confini politici istituzionali legati ai bacini, ai fiumi e ai loro percorsi.
Forse non è così utopico pensare alle comunità dei fiumi, ai paesi di una riva e dell’altra, a valle e a monte che si ritrovano, si danno forme di rappresentanza, regole e leggi per gestire assieme il diritto all’acqua.
Forse pensare ad una geografia politica che attraversi gli attuali confini dettati dalle fedi, dalle etnie, dalle guerre e pensare ad una geografia dei fiumi, forse è oggi qualcosa di necessario.
La politica è stata privatizzata, la sovranità dei beni comuni non è delle comunità è stata messa nelle mani delle multinazionali, ripubblicizzare la politica renderla partecipata e farne un bene comune, un uso civico, un diritto, è cosa di questo nostro tempo.

Allegato B
Proposta di "EcologiaPolitica. Ricerche per l’alternativa" alla Rete del Nuovo Municipio / al suo presidente Alberto Magnaghi (16 marzo 2005)
(da Giovanna Ricoveri, presidente della Associazione)

Nella costruzione del Quaderno della rivista, «Beni comuni fra tradizione e futuro» (a cura di G. Ricoveri, Emi, Bologna 2005, pp.160, euro13), ci siamo resi conto - grazie soprattutto al contributo del giudice Franco Carletti, commissario agli usi civici per il Lazio, la Toscana e l’Umbria - che in Italia esiste ancora un consistente patrimonio di terre “pubbliche”, stimato pari a 6 milioni di ettari, anche se difficilmente accertabile perché non vi è stata in proposito alcuna anntazione né sul catasto nè su altro pubblico registro.
Terre pubbliche nel senso di terre gravate da usi civici, dove per usi civici si devono intendere sia i patrimoni posseduti un tempo dalle popolazioni contadine, esclusi da qualsiasi forma di appropriazione privata perché destinati in perpetuo a sovvenire alle necessità primarie delle popolazioni proprietarie; sia i diritti di prelievo - di pascolo, fungatico, legnatico, ecc. ecc. - su terre altrui, pubbliche o private, rimasti alle popolazioni di un comune o di un altro comprensorio territorialmente determinato, utilizzabili fino alla loro liquidazione.
La terra è il più elementare dei beni comuni, di cui poco si parla per molte ragioni tra cui: la sua sostanziale privatizzazione, avvenuta con la trasformazione della terra in input inanimato della produzione e in asset patrimoniale; l’industrializzazione e la marginalizzazione dell’agricoltura, che nelle economie avanzate ha portato alla riduzione verticale della forza lavoro ivi impiegata (4% da noi, ma il target è il 2% degli Usa).
In Italia, dove le terre gravate da usi civici erano l’80% del territorio extraurbano al momento della unificazione del paese, nel 1860, - rispetto al 10-15% attuali, secondo le stime degli esperti - la materia è regolata da una legge del 1927 che aveva l’obiettivo di “conservare e valorizzare” le proprietà collettive ereditate dagli stati preunitari, attraverso la privatizzazione di quelle a destinazione agraria e l’affidamento all’Azienda forestale dello stato di quelle a coltura boschiva.
Nessuna di queste due politiche ha tuttavia funzionato: la privatizzazione fu ostacolata sia dal progressivo spopolamento delle campagne sia dall’uso improprio che Comuni e Province hanno fatto delle terre “pubbliche inalienabili”, su cui “per errore o per dolo” hanno dato permessi di costruzione edilizia (con la cementificazione urbana del primo e del secondo dopoguerra), contravvenendo al loro ruolo di garanti della conservazione dei patrimoni delle comunità.
Del demanio civico forestale, oltre a quanto detto sopra, può ancora ricordarsi l'esperienza positiva, ma isolata della Magnifica Comunità di Fiemme in provincia di Trento, dove è oggi la Comunità che predispone e mette a disposizione degli aventi diritto la legna dei propri boschi, evitando in tal modo i danni ambientali derivanti da prelievi indiscriminati e poco controllabili.
Il riconoscimento dei diritti civici nell'ordinamento contemporaneo è peraltro eccezionale e residuale; il legislatore stabilisce infatti che di usi civici non se ne possono costituire di nuovi, ogni possesso immobiliare dovendo d'ora in poi rientrare nelle previsioni e nelle regole del codice civile. Poiché l'origine storica dei diritti civici va ricollocata in epoche remote (nella tarda antichità o nel medioevo), per esistere e trovare riconoscimento nel mondo giuridico contemporaneo, questi diritti devono venire dunque formalmente accertati - e in base alla legge del 1927 ciò avviene mediante una sentenza del giudice speciale appositamente istituito, il commissario agli usi civici. Secondo le disposizioni generali del Codice civile, qualsiasi sentenza in materia immobiliare produce d’altra parte tutti i suoi effetti solo se passata in giudicato e trascritta sui libri immobiliari; ma questa regola elementare è stata disapplicata pressoché da tutti i magistrati addetti ai Commissariati agli usi civici.
Da questa circostanza trae sostanzialmente origine la “debolezza” contemporanea dei diritti civici, ogni precedente decisione potendo venire contestata dai successivi possessori delle terre e, oggi, anche dalle autorità amministrative, dotate di qualche competenza territoriale. Da ciò è nato inoltre un conflitto permanente tra i Commissariati e le Regioni, nelle cui pieghe si sono inseriti e sono andati impuniti gli abusi commessi anche dai Comuni e dalle Province.
La recente legge regionale del Lazio (n. 6 del 2005) permette ai Comuni di vendere liberamente i propri demani civici e, naturalmente di rilasciare agli acquirenti licenze di costruzione sulle terre compravendute, senza alcuna prescrizione o divieto a tutela del paesaggio. Questo è l’ultimo esempio di un abuso che molte circostanze favoriscono, ma che pur sempre un abuso resta, anche nelle sue soluzioni. Ai Comuni, infatti, che delle terre civiche sono dei semplici amministratori contabili, viene concesso per legge il potere di disporne, con il sostanziale spossessamento delle popolazioni proprietarie. Ma ciò equivale ad una espropriazione delle popolazioni senza ragioni di pubblico interesse e senza indennizzo, chiaramente illegittima. Contro la legge Lazio n. 6 del 2005 può dunque certamente essere sollevata eccezione di illegittimità costituzionale.
Le molte “fragilità” fin qui sottolineate inducono ad una riflessione: se non sia giunto il momento di organizzare una risposta dal basso a difesa delle terre di demanio civico ancora esistenti. Quale che sia il ruolo da esse svolto, fino ad oggi, nel frenare la speculazione edilizia, la devastazione del paesaggio, e la deforestazione è un fatto che, per il conseguimento di questi obiettivi, esse consentono di mobilitare le popolazioni proprietarie; è un fatto che, una volta abolite del tutto e ridotta ogni cosa al “deserto proprietario”, tutti e ciascuno potranno comportarsi come meglio loro aggrada, sicuri di una sostanziale impunità per i danni arrecati alla natura. Di questa mobilitazione potrebbe farsi artefice la Rete del Nuovo Municipio, nel quadro del suo impegno sul bilancio partecipativo e la democrazia diretta.
C’è tuttavia un punto critico da superare, connesso al fatto che le comunità titolari dei diritti civici non esistono più, talora fisicamente - perché i vecchi contadini sono morti o sono emigrati lontano, in città - talora culturalmente - perché non sanno e non sono interessati a sapere dei diritti che pur potrebbero esercitare. La proposta che Ecologiapolitica avanza in proposito è quella di mantenere ferma la destinazione d’uso e il vincolo di incommerciabilità dei demani civici e insieme di iniziare a ricostituire le comunità proprietarie, associando in tutte le forme possibili i soggetti che vi hanno titolo - affidando per esempio la coltivazione delle terre e la manutenzione dei boschi a cooperative concessionarie, garantendo loro tutti i finanziamenti reperibili ed i servizi minimali: la casa, mediante l'acquisizione e il restauro degli abitati abbandonati; le strade, che vanno di regola risistemate e non solo per le gite domenicali; le scuole, che vanno riattivate, ecc., in modo che su queste terre si possa condurre una vita civile, traendone reddito ed assicurando nel contempo una gestione conservativa dell'ambiente.
Resta aperto infine il problema delle competenze, del chi fa che cosa. Anche su questo abbiamo delle idee, che sottoponiamo alla discussione comune: sembra a noi che sia necessario arrivare alla costituzione di apposite Agenzie regionali agli usi civici, nel quadro di una legislazione nazionale più rigorosa e meno permissiva. Anche per evitare che la liquidazione dei demani civici - allo stato inarrestabile - favorisca la camorra e gli interessi privati più distruttivi, capaci spesso di valersi a vari livelli e in varie forme del sostegno pubblico, istituzionale e finanziario.
Roma, 16 marzo 2005

www.nuovomunicipio.org

Venerdì, 24 Novembre, 2006 - 18:33

Verso una legge regionale sulla partecipazione - Seminario di studi

http://www.nuovomunicipio.org

Per la prima volta in Italia, una Regione si pone il problema di legiferare (in termini regolativi e di indirizzo) sul tema della partecipazione. Il segno è assolutamente positivo, benché resti incerto quali siano i reali spazi di manovra dell'Ente Regione (un Ente di natura legislativa) in materia: per discutere delle prospettive d'intervento aperte dalla proposta di legge e della sua reale attuabilità, la Rete ha organizzato un seminario di studi alla presenza del Presidente uscente della Regione Toscana Claudio Martini, primo promotore dell'iniziativa. Numerosi gli studiosi, gli esponenti di movimenti e soprattutto le Autorità locali intervenute, in un Auditorium (quello del Consiglio Regionale Toscano) letteralmente ai limiti della capienza. La discussione, davvero ampia e articolata, ha toccato punti di carattere tecnico insieme ad opzioni sostanziali caratterizzanti le pratiche partecipative: in attesa di poterla pubblicare integralmente, nella nostra pagina dedicata ai forum diamo spazio agli abstracts pervenuti, che serviranno da spunto per un prolungamento telematico della discussione.
Pubblichiamo intanto qui declaratoria e programma dell'evento, qui il suo pieghevole in PDF. Per informazioni e contributi: Francesca Fondelli (0571 757824, 333 8381901) o Angelo M. Cirasino (348 0998491).

FORUM - TOSCANA: VERSO UNA LEGGE REGIONALE SULLA PARTECIPAZIONE
Per inviare contributi a questo forum: leggepartecipazione@nuovomunicipio.org

Questa sezione è stata creata per dare spazio alla discussione libera, fra tutti gli utenti del sito, sugli argomenti di pertinenza dei forum; le posizioni e le opinioni espresse nei contributi riportati, pertanto, non sono necessariamente coincidenti con quelle della Rete del Nuovo Municipio: il fine della loro pubblicazione è quello di abbozzare un quadro il più possibile realistico della discussione effettivamente in atto, nella società civile, intorno a tali argomenti. Non ci riteniamo, dunque, responsabili di quanto affermato nei contributi; ci auguriamo, peraltro, di poterci considerare corresponsabili della vivacità della discussione nel suo complesso, anche quando a questa sono sottesi conteniuti conflittuali la cui risoluzione passa necessariamente attraverso i canali del confronto aperto e sincero.

Il forum parte dalla proposta, lanciata dal Presidente della Giunta Regionale Toscana Claudio Martini, di promulgare una legge regionale volta a regolare, indirizzare ed incentivare le pratiche partecipative. Lo spunto - una novità assoluta per le Regioni italiane - è stato sviluppato in un seminario, promosso dalla Rete a Firenze lo scorso 9 Marzo, nel corso del quale fra studiosi, Autorità locali, movimenti e semplici cittadini è nata una discussione densa e articolata che crediamo meriti di proseguire virtualmente su queste pagine. Mentre è in corso il complicato lavoro di trascrizione di tutto quanto detto nel convegno, pubblichiamo qui le sintesi di alcuni fra gli interventi più interessanti lì presentati, sperando che bastino ad inaugurare un dibattito ulteriore, costruttivo e dalla partecipazione il più possibile allargata e paritaria - in linea con la nostra accezione abituale del termine.

CONTRIBUTI

* Prospettive emergenti dalla situazione italiana (Alberto Magnaghi, 09/03/05) http://www.nuovomunicipio.org/forum/leggepartecipazione/050309magnaghi.html

* Le esperienze di partecipazione in Europa: un bilancio (Giovanni Allegretti, 09/03/05)
http://www.nuovomunicipio.org/forum/leggepartecipazione/050309allegretti.pdf

* Federalismo municipale, integrazione istituzionale e sviluppo della partecipazione (Rossano Pazzagli, 09/03/05)
http://www.nuovomunicipio.org/forum/leggepartecipazione/050309pazzagli.html

* Il ruolo dei Comuni nel processo legislativo regionale (Alberto Chellini, 09/03/05)
http://www.nuovomunicipio.org/forum/leggepartecipazione/050309chellini.html

* Esperimenti di democrazia partecipativa, deliberativa e empowered (Donatella Della Porta, 09/03/05)
http://www.nuovomunicipio.org/forum/leggepartecipazione/050309dellaporta.html

** Mercoledì ero a Firenze... (Luigi Meconi, 12/03/05)
http://www.nuovomunicipio.org/forum/leggepartecipazione/050312meconi.html

Venerdì, 24 Novembre, 2006 - 18:28

presentazione categoria municipalità e partecipazione

Apriamo questa sezione, questo nuovo capitolo nel blog del consigliere di zona 4, il sottoscritto per intenderci, Alessandro Rizzo.

Le esperienze sono diverse, declinate e strutturate in differenti contesti locali e amministrativi di forte novità nelle modalità di gestione amministrativa e politica delle risorse pubbliche presenti nel proprio territorio: sono le esperienze delle città e dei comuni che hanno adottato i principi fatti propri nella Carta della Rete del Nuovo Municipio, ma strutturali e connessi con un'idea diversa e altra di democrazia in un'ottica di partecipazione, di diretta presenza politica e coinvolgimento delle realtà presenti nel territorio. L'idea della delega in bianco viene meno nelle pagine del movimento che a livello mondiale si è battuto e si batte per modificare uno sviluppo iniquo e illiberale, fortemente autoritario, fortemente assoggettato dalle logiche affaristiche e aziendalistiche della logica economica e finanziaria.

Apro un dibattito politico, chiaro, reale, forte, incisivo, coinvolgendo le lettrici e i lettori che volessero dare contributi. L'analisi di un nuovo percorso apre nuove dimensioni che potrebbero rendere la democrazia istituzionale, quella consiliare, quella basata sul mero rapporto di rappresentatività, possa trovare contenuti sostanziali e possa diventare da mero rapporto formale a canale di proposta attiva e collettiva, collegialmente considerata e partecipata.

Aspetto vostri interventi e vostre riflessioni, analisi, commenti, considerazioni, relazioni su proposte amministrative, esperienze istituzionali.

Una timida intenzione che possa percorrere questa strada a Milano sembra essere stata avanzata dal consigliere comunale Corritore, sulla partecipazione nella definizione dei criteri di monetizzazione per interventi urbanistici di stampo strutturale e di interesse collettivo: ma niente di nuovo si profila in merito all'attuazione di un vero decentramento amministrativo, un vero governo locale partecipato. I Consigli di Zona a Milano saranno addirittura esautorati della possibilità di intervenire direttamente nella scelta dei criteri di ripartizione dei fondi MAAP previsti per ciascuna circoscrizione, nonchè dei fondi complessivi che il Comune dovrebbe attribuire ai diversi Consigli di Zona. Niente si profila a riguardo e l'elemento propedeutico alla realizzazione di un vero decentramento diventa sempre di più lontano dall'essere realizzato. Rimane utopia? Mi adopererò a considerare forme che possano dare avvio a canali il più possibile partecipativi, coinvolgendo nelle fasi di commissione le realtà sociali e civili che vivono il territorio circoscrizionale, richiedendo con miei interventi e mie interrogazioni di allargare la partecipazione alle diverse riunioni tematiche su questioni di primaria importanza per il contesto sociale e territoriale in cui si trovano.

Buona lettura e partecipate, partecipiamo
Alessandro Rizzo
Capogruppo Lista Uniti con Dario Fo per Milano
Consiglio di Zona 4 Milano

Venerdì, 24 Novembre, 2006 - 18:07

Contro i territori di guerra, per un territorio dell'abitare

di Alberto Tarozzi
http://www.nuovomunicipio.org/documenti/smilitarizzazione/tarozzi.html

1. Premessa
Questo contributo intende produrre una riflessione che parte dalla evidente necessità di colmare il vuoto abissale costituito dalla distanza tra le dimensioni imponenti delle grandi manifestazioni contro la guerra del 2003, e il sostanziale annichilimento, salvo azioni puntuali, ma tutto sommato episodiche, dei movimenti pacifisti, proprio nel momento in cui la guerra andava prendendo forma nelle sue espressioni più devastanti di violenza e di morte.
E’ una riflessione che considera centrale il ruolo che la forma-guerra ha preso nelle sue molteplici espressioni di proiezione militarizzata sul territorio.
Contro queste espressioni i movimenti pacifisti hanno individuato obiettivi coincidenti coi luoghi in cui la militarizzazione assumeva il suo volto più esplicito, come le basi militari nazionali e internazionali o addirittura la caratteristica di enclave bellica di una superpotenza straniera.
La denuncia di queste forme, anche estreme, di militarizzazione del territorio rischia però di diventare pura testimonianza simbolica se si concentra solamente sui punti critici rappresentati dalle basi contro le quali esercitare periodicamente l’impatto di manifestazioni nazionali che nel corso del tempo esprimono i sussulti episodici di lotte che soffrono l’accerchiamento di un territorio più vasto, avulso dalle tematiche e dal dibattito relativi ai processi di smilitarizzazione.
Si rende allora necessaria la messa a punto di un discorso più vasto e puntuale, che recuperi sul territorio, la dimensione diffusa e di massa del popolo delle bandiere della pace, che rivolti come un guanto la dinamica dell’accerchiamento di cui movimenti come quelli contro le basi militari rischiano di diventare vittime predestinate.

2. Forma-guerra e pace preventiva, una sfida per i nuovi municipi
Da un lato occorre focalizzare una molteplicità di espressioni in cui la forma-guerra contamina i territori per formulare, nei confronti di ognuna di tali espressioni, i lineamenti di un processo di bonifica e di conversione che veda negli abitanti i protagonisti consapevoli e progettuali: contro i veleni rappresentati dal ciclo della produzione bellico-militare, ma anche, non di meno, contro i veleni di una produzione “civile”, che solo nominalmente è connotata da caratteristiche distinte da quelle che determinano i veleni militari in senso stretto con cui esiste invece un’interconnessione priva di soluzione di continuità.
D’altro lato occorre anche immaginare percorsi di costruzione di una pace preventiva che veda, nella produzione di valore aggiunto territoriale, di progetti di sviluppo locale autosostenibile, delle reti lunghe della cooperazione decentrata, l’alternativa dal basso alla gerarchizzazione dei luoghi e dei tempi della vita quotidiana; un’alternativa che contrasti le logiche dei giochi a somma zero (vincere/perdere, amico/nemico, servo/padrone) che la guerra produce e di cui la guerra è il prodotto, che prepari la pace togliendo alla guerra alcune delle ragioni del suo stesso esistere.
In entrambi i tipi di percorso affidiamo al territorio come bene comune, come spazio di una pubblica fiducia tra la società civile e le istituzioni, un ruolo di protagonismo.
Intendiamo cioè il territorio come terreno di gioco in cui la contrapposizione tra forma-guerra e pace preventiva deve trovare una soluzione che consenta la rottura dell’accerchiamento dei movimenti negli spazi ristretti circostanti le basi e nei tempi episodici delle grandi manifestazioni.
Intendiamo il territorio come luogo di aggregazione e di messa in rete delle esperienze dal basso di cantieri di costruzione di un altro mondo possibile nel quale i movimenti trovino, come primo e più prossimo interlocutore istituzionale, quegli Enti locali che nella proposta di una Rete di Nuovi Municipi vengono identificati come i portatori dei contenuti di una progettualità politica e culturale sostanzialmente nuova.
Provvediamo in questa sede ad illustrare un’agenda articolata in sei punti, all’interno dei quali si possono individuare i binari entro cui canalizzare, miscelate tra loro, entrambe le tipologie di percorso sopra individuate: tanto quelle di bonifica e conversione dei veleni presenti, quanto quelle di costruzione progettuale di una pace preventiva.

3. Agenda di lavoro
- Punto 1. Stili di vita per una pace preventiva
Siamo stati fino ad ora abituati a leggere le esperienze che esprimono opzioni alternative allo stile di vita e di consumo del nostro modello di sviluppo, unicamente secondo un’ottica di sobrietà e di rispetto per valori etici ed ambientalistici. Dobbiamo però andare oltre, nel leggere quelle esperienze sapendone cogliere anche un altro aspetto, solo apparentemente secondario. Dietro i gruppi di acquisto, le botteghe, le varie forme dell’economia solidale e i bilanci di giustizia sparpagliati sul territorio è possibile incontrare non soltanto i volti di mondi in cui le relazioni tra gli esseri umani sono più autosostenibili, eque e solidali, ma anche la messa in discussione di uno sviluppo che, nell’atto del suo riprodursi va invece incontro alla propria autodistruzione, consumando irreversibilmente risorse scarse, determinando gerarchie posizionali in cui il successo degli uni può solo coincidere con la sconfitta degli altri, alimentando le fortune dei pochi e la pura sopravvivenza dei tanti mediante la distruzione progressiva di risorse energetiche centrali al modello, ma scarse e non rinnovabili come il bene-petrolio o, per altro verso, il bene-acqua. In quale altro modo è possibile costruire una pace preventiva, se non si estromette dal gioco una posta in palio che solo pochi si possono aggiudicare e, quei pochi, solo dopo avere sconfitto per via militare coloro che dal godimento di quel determinato bene vanno esclusi, onde evitare che l’affollarsi dei consumatori ne deteriori la qualità e ne metta a repentaglio l’esistenza?
Meno, ma meglio, è un punto di vista che coniuga sobrietà, risparmio energetico e qualità della vita. Ma che consente anche un futuro in cui la ricchezza dell’abitare e del vivere sia il frutto di una necessità del cooperare e non dello sconfiggere militarmente il nemico. Sono questi gli stili di vita che consentono di prevenire la guerra e queste le espressioni dei network associativi che le istituzioni più vicine alla cittadinanza hanno il dovere di sostenere e di facilitare nei loro percorsi di radicamento e di moltiplicazione. Stili di vita che diffondono saperi e consuetudini coniugabili con l’utilizzo di produzioni energetiche alternativa, che limitino la nostra impronta ecologica, che forniscano un benessere non misurabile più solamente in base di un esclusivo parametro economicistico come il prodotto interno lordo pro capite.
- Punto 2. Smilitarizzazione contro la produzione di morte
La forma-guerra è presente nella vita produttiva e finanziaria di un Paese, sia nell’industria delle armi come fabbrica di distruzione in quanto tale, sia al momento del finanziamento del ciclo di produzione dell’industria bellica attraverso il prestito e la partecipazione del sistema bancario. Fabbriche di morte e banche armate rappresentano termini ormai usuali nel lessico dei movimenti pacifisti. Si potrebbe proporre alle istituzioni municipali un percorso di allontanamento da questi centri del potere produttivo e finanziario: una presa di distanze assimilabile, per qualche verso, alle recenti prese di posizione dei Municipi romani nei confronti della Coca Cola per i suoi atteggiamenti quanto meno antisindacali in America latina. Riconosciamo che il problema va affrontato tenendo conto delle implicazioni che la presenza di una forte industria bellica induce sul quadro occupazionale locale e nazionale. Ma confrontarsi con questi livelli di complessità comporta a maggior ragione una progettualità di largo respiro che coinvolga gli Enti locali e le forze sindacali e associative, in grado di formulare piani di riconversione dell’industria bellica, che allontanino il ricatto legato ai rischi di perdita del posto di lavoro e avanzino ipotesi di eticizzazione del mercato finanziario.
- Punto 3. I territori dell’abitare: un’alternativa al controllo militarizzato della vita quotidiana
La militarizzazione della vita quotidiana, intesa come forma di restrizione della libertà del vivere e come gerarchizzazione del comando istituzionale sulla vita degli abitanti, coincide solo parzialmente con la installazione di apparati, di strutture e di edifici con un’esplicita destinazione di carattere militare. Ci limitiamo in questa sede ad una pura e semplice elencazione di ambiti istituzionali e del vivere civile nei quali, anche recentemente, si sono affermate istanze coerenti con una militarizzazione crescente della vita quotidiana cui opponiamo la proposta di uno scenario in cui la libera circolazione degli individui, la proliferazione di luoghi di incontro aperti e per ciò resi sicuri dallo spirito di socialità che vi si può costruire, dia vita a un effettivo territorio dell’abitare: costruzione di grandi opere e di centrali che possono essere ritenute oggetto di attentati ad alto rischio e che richiedono quindi il dispiegamento di un apparato di difesa militare particolarmente invasivo degli spazi e lesivo delle autonomie territoriali locali; militarizzazione del corpo dei Vigili del fuoco; blindatura delle città, in orari e luoghi ritenuti particolarmente critici, per ragioni di sicurezza; criminalizzazione e reclusione delle fasce deboli degli abitanti, come nel caso della politica dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati senza permesso di soggiorno, spesso provenienti da territori in guerra; dotazione di armi speciali per le forze di polizia, capaci di produrre effetti sempre più nocivi alla salute dei cittadini e tali da determinare forme di repressione più violenta nei confronti delle manifestazioni di dissenso; dilatazione delle sfere della vita civile sottoposte a legislazione militare (come nel caso dei doveri dei giornalisti in tempo di guerra o il segreto militare applicato alla presenza e all’uso di sostanze tossiche che incorrerebbero nei divieti della legislazione civile): va ricordato in positivo, in quest’ultimo caso, il riconoscimento dei diritti dei cittadini ad essere informati sull’esistenza di materiali bellici ad alto rischio, presso le basi militari, riconoscimento dovuto al fatto che i medesimi cittadini debbono essere tenuti al corrente degli eventuali piani di evacuazione conseguenti ai rischi che la detenzione di tali materiali produce. Va invece ricordata in negativo, la tragica differenziazione dei territori in aree di interesse militare e non, che sicuramente non ha facilitato la prevenzione e i soccorsi nelle zone del sud-est asiatico devastate dallo tsunami.
- Punto 4. Smilitarizzazione contro l’avvelenamento “civile” dei territori
Quando un territorio risulta avvelenato da scorie, rifiuti e sostanze tossiche, la linea di demarcazione che separa i fattori di tale avvelenamento in fattori “militari” e fattori “civili” è sovente impalpabile. Sicuramente, per gli abitanti che subiscono le conseguenze dei veleni che li circondano, non è di grande consolazione sapere che la fonte che mette a repentaglio la loro salute e spesso la loro sopravvivenza, non è in senso stretto situabile all’interno dei reticolati che difendono i territori formalmente militarizzati. D’altronde, i bombardamenti della Nato sui petrolchimici della ex-Jugoslavia ci hanno dimostrato come obiettivi civili, ad alto potenziale inquinante, colpiti anche soltanto da armi convenzionali, possono assumere il ruolo di luoghi di una catastrofe dai contorni ecologico-sanitari altrettanto inquietanti di quelli che potrebbero essere determinati dal bombardamento di obiettivi militari in senso stretto. Ma è proprio l’assenza di una linea di demarcazione universalmente condivisa che deve spingerci a classificare negli ambiti di una battaglia contro la militarizzazione del territorio tutti i veleni che il sistema produttivo contemporaneo riversa contro i suoi abitanti, come un vero e proprio atto di guerra contro la salute del genere vivente. In questo senso va visto con preoccupazione il progressivo aumentare dei siti inquinanti e il moltiplicarsi delle loro tipologie: contaminazione e uso improprio delle risorse idriche, sempre meno considerate come beni pubblici; stoccaggio e riciclaggio di rifiuti e scorie tossiche di ogni genere, ivi comprese quelle radioattive, da collocare in contiguità con la produzione militare; apparati di controllo e informazione, tra cui è difficile distinguere l’uso civile da quello militare, come nel caso di radar, antenne e altre possibili fonti di elettrosmog. Anche in questi casi il rapporto tra movimenti, associazioni, ricercatori e istituzioni locali andrà finalizzato all’affinamento dei saperi sull’impatto sociale ed ambientale di tali installazioni. Solo così sarà possibile innescare processi informativi e decisionali che stabiliscano le modalità di conversione al civile “pulito” e/o di eventuale chiusura di attività incompatibili con la salute degli abitanti nel rispetto dei diritti dei lavoratori come di quelli dei cittadini per aprire a tutti nuovi luoghi di vita e di incontro.
- Punto 5. Smilitarizzazione contro l’avvelenamento militare dei territori
Questo punto riguarda in senso stretto le azioni e i provvedimenti cui dare vita in risposta alla installazione e all’allargamento di basi militari sul territorio, alla disinformazione che circonda le loro strutture e il loro funzionamento, all’impatto che la loro presenza induce sul territorio circostante. In questo senso è fondamentale circoscrivere gli ambiti del segreto militare come strumento in grado di impedire una documentazione e un’informazione adeguate sulla presenza e gli effetti di sostanze il cui uso può determinare conseguenze gravi sulla salute dei cittadini, che la stessa scienza ufficiale è in grado di valutare solo in tempi lunghi, con ricerche approfondite e costantemente aggiornate. In particolare i porti nucleari, i poligoni di tiro, oltre alle già citate installazioni di strumentazioni sia civili che militare legate alla produzione di elettrosmog vengono oggi sempre più classificati dagli esperti come potenziale origine di forme tumorali oggetto di studio: pensiamo ai tumori determinati dalle polveri dei poligoni di tiro o dalle installazioni nucleari o dall’uranio impoverito. Portare alla luce questi fattori di rischio è solo il primo passo, che deve vedere impegnati istituzioni locali, ricercatori e mondi associativi e deve fornire materia prima di conoscenza e riflessione agli abitanti e agli eventuali movimenti contro la militarizzazione dei luoghi, per la riconversione autosostenibile e partecipata al civile dei siti bonificati. Si tratta di una premessa indispensabile per conferire ai soggetti impegnati su questi temi materiali scientifico-informativo che rendano possibile una continuità d’azione e una presenza capillare, efficace e competente, sul territorio nazionale. Un’attenzione particolare va inoltre riservata ai luoghi sedi di basi militari soggetto a un comando che esula dalle istituzioni nazionali (Nato, Usa). In questo caso il coinvolgimento degli Enti locali risulta indispensabile per determinare un avanzamento dei negoziati da scala locale a casa regionale fino a coinvolgere i livelli politici nazionali e internazionali. Le recenti prese di posizione della Regione Sardegna sulla presenza non procrastinabile delle basi statunitensi a La Maddalena, coniugato con le ricerche degli Scienziati contro la guerra oltre che con le prese di posizione dei movimenti, delle associazioni ambientaliste e degli altri Enti locali lascia intravedere i primi passi di un percorso orientato nella direzione necessaria.
- Punto 6. Cooperazione internazionale e mediazione culturale: le reti lunghe della democrazia dal basso
La guerra è per sua natura un fenomeno non circoscrivibile nella dimensione delle società locali, ma un fenomeno che si dispiega su scala internazionale, cui vanno date risposte efficaci che oltrepassino i confini dei singoli Stati, anche se la lontananza a cui è necessario fare riferimento non è solamente di tipo fisico; essa pertiene anche la distanza culturale che separa i migranti dalle società di accoglienza e tra loro stessi, una distanza e una difficoltà di comunicare che alimentano diffidenze e conflitti che possono a loro volta nutrire le cause della nascita e della perpetuazione delle guerre ai quattro angoli del mondo.
a. La cooperazione decentrata. Spesso la cooperazione internazionale e, nella fattispecie del ruolo assunto dagli Enti locali, quella decentrata, sono state viste come un possibile antidoto alla deflagrazione dei conflitti. Purtroppo, al di là della buona volontà dei singoli attori istituzionali e della società civile, le iniziative di prevenzione dei conflitti o di interposizione tra le parti, i tentativi di costituzione di una diplomazia parallela, hanno avuto raramente il potere di invertire o sia pure modificare significativamente la rotta determinata da scelte politico-militare effettuate in stanze impermeabili alle voci della società civile contro la guerra. Perché atti simbolici pur necessari e intensi non rimangano fini a se stessi, occorre probabilmente immergersi nella profondità degli abissi di catastrofi cui pure noi, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito: rivisitare noi stessi, toccando con mano le conseguenze di quanto è finora avvenuto e partire di qui, insieme alle popolazioni colpite, per un’opera di ricostruzione dell’abitare che non è solo bonifica dalla tossicità fisica della guerra, ma anche progetto di sviluppo locale e cosmopolita di un tessuto sociale e civile, disintossicato dai veleni dell’odio e della propaganda bellica.
Da questo punto di vista vanno ritenuti esemplari i progetti di monitoraggio e bonifica delle città oggetto di bombardamenti ad alto impatto ecologico e sanitario (progetti d’avanguardia portati avanti col supporto di singole amministrazioni locali in Emilia-Romagna e nel Veneto). Analogamente vanno situati nel quadro di una smilitarizzazione del vivere civile i progetti di ospitalità nei confronti di popolazione infantile contaminata (è il caso di Chernobyl) dai veleni di una produzione “civile” dell’energia.
b. La mediazione culturale. Per altro verso è altrettanto evidente che, senza varcare i confini, i germi del pregiudizio, dello scontro etnico, religioso, nazionalistico, vale a dire gli elementi che i trombettieri delle nuove guerre utilizzano a proprio uso e consumo enfatizzando diversità che potrebbero viceversa essere fonte di reciproco arricchimento, possono sedimentare risentimenti e odi anche nel perimetro più circoscritto dei nostri territori. Sicuramente l’iniziale difficoltà di comunicare, abbinata ai disagi che territori inospitali rischiano di moltiplicare, può costituire la premessa di miscele esplosive che già altre metropoli dell’Occidente stanno sperimentando. Il nuovo municipio risponde a questa sfida destinando risorse alla mediazione culturale a partire da luoghi strategici, come soprattutto la scuola, ma anche l’ambito sanitario, i luoghi di lavoro, là dove, cioè il contatto tra culture diverse è nello stato delle cose e dove la partita, tra una cittadinanza inclusiva della diversità degli abitanti e il costituirsi dei ghetti come microcosmi di guerra, è una partita che si può e si deve vincere.

4. Conclusioni
Riassumiamo i punti dell’agenda fin qui definita in termini di contenuti, allo scopo di fornire di connotati la cornice degli obiettivi verso cui convergere e di definire un metodo di lavoro.
Obiettivo di fondo è la costituzione di un quadro operativo che consenta una continuità di interventi a un movimento che è finora vissuto tra picchi di partecipazione fisica di massa e una relativa fragilità di tenuta. Un movimento che stenta a sedimentare sui territori e a far fiorire in forma estesa e capillare quei semi che il popolo delle bandiere arcobaleno era sembrato disponibile a coltivare.
I rischi da cui non ci si è fin qui riusciti a liberare sono l’episodicità periodica delle manifestazioni di massa incentrate su parole d’ordine generali come il no alla guerra e il sostanziale accerchiamento di cui hanno sofferto i movimenti antimilitaristi nella loro ricerca di aggiudicarsi poste in gioco significative sul piano degli obiettivi specifici e concreti come le basi, le fabbriche di armi o i grandi impianti.
Il metodo di lavoro, commutato dalle esperienze recenti ma già dense della Rete dei nuovi municipi, è rappresentato da una proposta di messa in rete del mondo delle associazioni e dei movimenti coinvolti da esperienze inscritte nei sei punti della presente agenda (contro la guerra, ma non solo) con il mondo della ricerca e con gli esponenti più sensibili all’argomento, presenti nell’universo politico delle amministrazioni locali.
Alcune esperienze sono già in atto. La costituzione di un gruppo tematico sull’argomento potrebbe dare impulsi nuovi, operare connessioni fin qui inesplorate e indurre la crescita accelerata delle iniziative finora intraprese solo embrionalmente.
Contro i territori di guerra, per un territorio dell’abitare.

Giovedì, 23 Novembre, 2006 - 14:14

Interrogazione su variazioni destinazioni d'uso

Al Consiglio di Zona 4 e alle sue componenti
Al Presidente del Consiglio di Zona 4
Paolo Zanichelli
Al Presidente della Commissione edilizia
Bruno Bernardi
Al Presidente della Commissione Traffico e urbanistica
Giorgio Tomellini

Interrogazione: verifica delle compatibilità delle destinazioni d’uso di progetti previsti di intervento edilizio e urbanistico presenti nel territorio della circoscrizione zonale

In differenti contesti sono presenti lavori in corso per l’effettuazione e la realizzazione di progetti già esecutivi, quindi già concessi e liberati, di edificazione e di intervento urbanistico inerenti nuovi complessi, ristrutturazioni di edifici già presenti, nuovi edifici.
Nelle concessioni del progetto di lavoro è presente la destinazione d’uso a cui il nuovo complesso e la nuova struttura è indirizzata. Spesso si è verificata la non corrispondenza tra la destinazione d’uso dichiarata nel progetto e quella realmente realizzata.

Chiedo che il Consiglio di Zona su istanza istruttoria delle rispettive commissioni avvii misure e canali atti a verificare la corretta corrispondenza tra le suddette dichiarazioni d’uso, a verificare se in corso d’opera siano intervenute varianti nel Piano Integrato d’Intervento, e, a d accertamento avvenuto, di provvedere, nel caso in cui si verificasse un’incompatibilità tra i due elementi, di chiedere le motivazioni della modifica, revisionarne il progetto ed esprimerne un parere a riguardo.

E’ opportuno accertare anche le possibilità di prevenire fenomeni e rischi derivanti da questi casi, tramite un controllo adeguato e puntuale predisposto da parte del Consiglio stesso.

Alessandro Rizzo
Capogruppo Lista Uniti con Dario Fo per Milano
Consiglio di Zona 4 Milano

Martedì, 21 Novembre, 2006 - 14:10

Blocco del traffico e nuove autostrade...

 
Con l'avvicinarsi dell'inverno, in Lombardia ricompare puntualmente il problema dell'inquinamento dell'aria e si ricorre al solito palliativo di fermare il traffico domenicale. Inoltre è in corso un acceso dibattito su quindi ridurre la circolazione di automobili applicando un ticket di ingresso a Milano.
 
Queste due soluzioni (blocco e ticket) non servono a migliorare la qualità dell'aria e sono anche profondamente inique, in quanto lasciano i proprietari di automobili nuove liberi di inquinare quanto vogliono, penalizzando invece chi non può permettersi di acquistare l'ultimo modello di macchina ogni anno. Dal blocco domenicale vengono inoltre esentati i veicoli elettrici, eppure si sa che l'elettricità viene generata da centrali che bruciano gasolio e importata dalle centrali nucleare francesi, quindi da fonti tutt'altro che pulite!
 
Denunciamo l'ipocrisia con cui lo Stato e la Regione Lombardia continuano a progettare e costruire nuove autostrade e tangenziali: la BreBeMi, la Tangenziale est esterna e la Pedemontana, contribuendo così significativamente ad aumentare la circolazione di automobili nell'area metropolitana intorno a Milano.
 
Chiediamo con insistenza al Governo, alla Regione Lombardia, alla Provincia e al Sindaco di Milano:
 
- che i progetti della BreBeMi, della Tangenziale est esterna e della Pedemontana, ma anche la terza pista di Malpensa, vengano cancellati per sempre.
- che i fondi destinati a questi progetti vengano immediatamente investiti nel miglioramento della rete di trasporto pubblico, in particolare metropolitane, tramvie e rete ferroviaria regionale e nello spostamento del traffico merci da camion su ferrovia (e non in progetti faraonici e inutili come la TAV)
- che ogni strada venga dotata di pista ciclabile protetta dal traffico motorizzato
- che si blocchi la costruzione di nuovi centri commerciali e "outlet" fuori dai centri urbani, poiché generano ulteriore circolazione di macchine e distruggono il tessuto urbano.
 
 
Segreteria Ambiente
Partito Umanista
Milano
 

Lunedì, 20 Novembre, 2006 - 14:50

Si è aperta la stagione della caccia al Tfr

Chi avrà la meglio: fondi chiusi, fondi aperti o Fip?
Si è aperta la stagione della caccia, anche se, questa volta, sotto tiro non è qualche specie in via di estinzione ma il Tfr dei lavoratori (in via di estinzione anche questo). Dopo l'ultima mossa del Governo, che ha anticipato di un anno la data di partenza della riforma sulla previdenza integrativa, banche e assicurazioni hanno iniziato a scaldare i muscoli, per arricchire l'offerta di strumenti previdenziali, in vista dello start d'inizio.
 

Perché tra qualche settimana i lavoratori italiani dovranno decidere cosa fare del loro Tfr: se lasciarlo in azienda oppure conferirlo alle forme di previdenza complementare. Un business da 13 miliardi l'anno (mica noccioline) che fa gola a molti, soprattutto agli operatori finanziari, che si preparano alla grande raccolta; ed alle compagnie di assicurazione e agli istituti bancari ormai non resta che rivedere il loro piano industriale e rimboccarsi le maniche. Entro dicembre tutti i Fondi pensione saranno tenuti ad aggiornare i propri statuti e regolamenti e dal 1° gennaio 2007 scatterà il meccanismo del silenzio-assenso. Due mesi non sono molti e non sono ammessi passi falsi. In primo piano tra le forme di previdenza complementare naturalmente i fondi pensione seguiti dalle polizze assicurative previdenziali (Fip).

Chi avrà la meglio: fondi chiusi, fondi aperti o Fip? Ricordiamo che, si considerano fondi aperti tutti quei fondi di previdenza complementare istituiti da soggetti privati che raccolgono quei soggetti per i quali non esiste un fondo chiuso, dove per chiuso si intende quel fondo che nasce dalla contrattazione collettiva riservato a categorie definite di lavoratori. E' prevedibile che la fetta più grossa della torta verrà trasferita nei fondi chiusi. Secondo i dati del Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), nel 2005, gli iscritti ai 43 fondi di categoria di nuova istituzione erano oltre 1,15 milioni (+8,7% rispetto al 2004), mentre gli iscritti agli 89 fondi aperti erano di poco superiori a 400 mila (+6,5%). Ma se per ora i negoziali surclassano gli aperti come numero di iscritti, a livello di performance questi ultimi sono in vantaggio. Dal 2003 al 2005 gli aperti hanno guadagnato in media il 22,9% contro il 17,8% dei negoziali e, nel 2005 le due performance sono state rispettivamentedell '11,5% e del 7,4%.

Se si guarda ai singoli prodotti, secondo i dati del Mefop, società creata dal ministero dell'Economia per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione, negli ultimi cinque anni, il migliore negoziale è stato Arco, fondo dei dipendenti del settore del legno e dell'arredamento (+29,66%) seguito a ruota dai ceramisti, che, con il fondo Foncer hanno messo a segno un +26,63%. Bene anche per Previcooper, il fondo delle cooperative di distribuzione (+25,04%). Tra gli aperti invece il podio spetta a Almeglio Azionario, fondo aperto di Gruppo Alleanza, che grazie alla scelta di una manciata di titoli particolarmente azzeccati (Autogrill, Unipol, l'Espresso, Belgacom e Deutsche Boerse) si é portato a casa in cinque anni un +60,88% doppiando i negoziali. Si é difeso bene anche Almeglio Bilanciato. +35,98% in cinque anni grazie anche alle obbligazioni dell'area euro con rating non inferiore alla singola A). Tra i migliori fondi aperti Kaleido di Mps, con le linee bilanciate-azionari e Triangolo Rettangolo e Triangolo Scaleno (rispettivamente +43,07%e +33,73%). Per chi invece decide di tenere il piede in due staffe ci sono Ras e Mediolanum che fanno il doppio gioco operando sia sui negoziali che sugli aperti.

Chi gestisce questi prodotti? La maggior parte dei Fondi chiusi (45 per essere precisi) ha delegato la propria gestione alle Sgr mentre gli aperti (operativi se ne contano circa 80) preferiscono il settore bancario e assicurativo. Finora il mercato non é stato particolarmente attivo ma per il prossimo anno ci si aspetta la moltiplicazione dei pani e dei pesci ed il numero degli iscritti dovrebbe raddoppiare. Secondo i dati di Assogestioni le prime cinque società nei fondi pensione aperti sono Intesa Previdenza con 106.644 iscritti, Arca Sgr (67.994), Sanpaolo Imi (28.092), Monte dei Paschi di Siena (56.095) e Ras (14.810). Se in alcuni casi la corsa delle banche sembra persa in partenza, soprattutto nel caso di fondi chiusi di categoria che hanno fatto troppa strada per essere raggiunti arrivando a 120.000 iscritti, una cosa é certa: per non uscire sconfitti dalla gara, gli istituti dovranno fare un salto di quantità, passando dalle adesioni di tipo individuale (oggi l'87% nei fondi aperti del totale) a quelle collettive (il restante 13%). Insomma la partita resta tutta da giocare vincerà la sicurezza o il rendimento.

Lunedì, 20 Novembre, 2006 - 12:37

Giornata di partecipazione degli studenti alla vita democratica della Zona

Anticipo il testo di un'importante e interessante mozione che presenterò in Commissione Biblioteche di Zona 4, oggi ...

Alla Cortese Attenzione del Presidente del Consiglio di Zona 4
Paolo Zanichelli
Alla cortese attenzione della Presidente Commissione educazione e biblioteche
Antonella Di Troia
Al Consiglio di Zona 4 e alle sue e ai suoi componenti

Oggetto: mozione per la preparazione di una giornata di valorizzazione della partecipazione delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi alla vita democratica della nostra circoscrizione e città.

In riferimento

alla proposta indirizzata dall’associazione Arciragazzi di Milano, presente e operante nella città per la tutela e la diffusione dei diritti dell’infanzia, a diversi organismi istituzionali, tra cui il Consiglio Comunale e i Consigli di Zona di Milano, il cui testo allego alla presente mozione, di organizzare in concerto con la commissione educazione e il Consiglio di Zona, e le scuole elementari e medie della zona, una giornata all’insegna della partecipazione e della valorizzazione del senso democratico e della conoscenza istituzionale del Consiglio di Zona, rivolta alle bambine e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi delle scuole;

Vista

l’organizzazione già eseguita e la ricezione attuata da parte del Consiglio di Zona 9 e del Consiglio di Zona 7 di Milano in merito all’indizione nella settimana corrente della giornata di valorizzazione della partecipazione delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi alla vita democratica della nostra circoscrizione e città;

Considerata

la ricorrenza del 18° Anniversario della Convenzione Internazionale per i diritti dei bambini e dei ragazzi, che definisce il ragazzo quale soggetto attivo con personalità giuridica , titolare del diritto di partecipazione alla vita pubblica riguardante la collettività e la comunità;

Si propone

al Consiglio di Zona e alla Commissione educazione di provvedere a indire una giornata che avvii un percorso continuativo di confronto e dialogo tra le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi e gli amministratori circoscrizionali, sviluppando canali di conoscenza e di dialogo atti a garantire una crescita civile all’insegna di una reale partecipazione del bambino alla vita democratica del territorio. In base alla proposta formulata, la giornata può comprendere le seguenti fasi:

- ricevimento e incontro pubblico con le delegazioni delle classi, elette dalle bambine e dai bambini delle singole scuole coinvolte nel proprio ambito, dove potranno esporre al Presidente del Consiglio di Zona alle componenti e ai componenti del Consiglio stesso, nella sede consiliare, le proprie richieste, istanze, riflessioni e proposte in merito all’ambiente urbano e naturale della loro zona, della loro scuola, e ai loro diritti di giovani cittadine/i;
- visita guidata del Consiglio di Zona da parte delle delegazioni scolastiche, al fine di rendere conoscenti le/i ragazze/i dei servizi che il Centro Civico può disporre, dove potere reperire forme di tutela e di garanzia dei propri diritti sociali.

L’importanza della proposta consiste nel promuovere il senso civico reale di partecipazione democratica della bambina e del bambino, nell’istaurare un rapporto di piena rappresentanza e di conoscenza delle strutture del Centro Civico, comprendente i servizi che esso offre e può offrire nel tutelare e garantire i propri diritti, e nel concepire il ragazzo e la ragazza come soggetti di diritto e di cittadinanza a pieno titolo, avente la titolarità di intervenire e di incidere nelle scelte riguardanti il proprio territorio, la propria vita sociale e il patrimonio che dispone pubblicamente la propria circoscrizione, da loro stessi usufruibile, all’insegna del rispetto civico e nelle modalità definibili anche tramite la loro diretta partecipazione.

Allego alla presente mozione copia della Convenzione Internazionale dei Bambini e la richiesta proposta formulata dall’Arciragazzi di Milano.

Alessandro Rizzo – Capogruppo Lista Uniti con Dario Fo per Milano

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