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Il Blog di Alessandro Rizzo | www.partecipaMi.it
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.: Il Blog di Alessandro Rizzo
Mercoledì, 5 Novembre, 2008 - 13:03

Barack Obama: "We Have a Lot of Work to Do"

Un video che segna l'inizio di una nuova epoca: l'epoca di un cambiamento possibile e necessario.
Inizia la stagione di Obama, si cambia una pagina nera e oscura degli USA per aprire un nuovo capitolo per il mondo.

C'è molto lavoro da fare, ma penso che con te, Barack, ci siano molte speranze riposte.

http://www.youtube.com/watch?v=cfjQujYrfEk&feature=channel

Mercoledì, 5 Novembre, 2008 - 12:55

Barack Obama:"La fine di un viaggio storico l'inizio di un altro"

Questa sera, dopo cinquantaquattro combattutissime sfide, la nostra stagione delle primarie si è finalmente conclusa. Sono passati sedici mesi da quando ci siamo riuniti per la prima volta, sui gradini del vecchio palazzo del Parlamento statale dell'Illinois, a Springfield. Abbiamo percorso migliaia di miglia. Abbiamo ascoltato milioni di voci. E grazie a quello che voi avete detto, grazie al fatto che voi avete deciso che a Washington deve arrivare il cambiamento, grazie al fatto che voi avete creduto che quest'anno dovrà essere diverso da tutti gli altri anni, grazie al fatto che voi avete scelto di dare ascolto non ai vostri dubbi o alle vostre paure ma alle vostre speranze e aspirazioni più grandi, questa notte noi scriviamo la parola fine di uno storico viaggio con l'inizio di un altro viaggio, un viaggio che porterà un'alba nuova e migliore per l'America. Questa notte, io posso venire da voi e dire che sarò il candidato del Partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti.

Voglio ringraziare tutti gli americani che sono stati al nostro fianco nel corso di questa campagna, nei giorni belli e nei giorni brutti; dalle nevi dello Iowa, al sole del South Dakota. E questa sera voglio ringraziare anche gli uomini e le donne che hanno intrapreso questo viaggio con me, candidandosi anche loro per la presidenza.

In questo momento decisivo per la nostra nazione, noi dobbiamo essere orgogliosi che il nostro partito sia stato capace di schierare un gruppo di persone fra le più brillanti e competenti che abbiano mai concorso a questo incarico. Non mi sono limitato a competere con loro come avversari, ho imparato da loro, come amici, come servitori dello Stato e come patrioti che amano l'America e sono disposti a lavorare senza risparmio per rendere migliore questo Paese. Loro sono dei leader di questo partito e sono leader su cui l'America farà conto negli anni a venire.

Tutto questo vale in particolare per la candidata che questo viaggio lo ha prolungato più di chiunque altro. La senatrice Hillary Clinton ha scritto la storia, in questa campagna elettorale, non soltanto perché è una donna che ha saputo fare quello che nessuna donna aveva fatto prima, ma perché è una leader capace di dare l'esempio a milioni di americani con la sua forza, il suo coraggio e il suo impegno in favore di quelle cause che ci hanno condotto qui questa sera.

Certamente ci sono state delle divergenze tra di noi negli ultimi sedici mesi. Ma avendo condiviso il palcoscenico con lei in molte occasioni, posso dirvi che quello che spinge Hillary Clinton ad alzarsi ogni mattina – anche quando ci sono poche speranze – è esattamente quello che spinse lei e Bill Clinton a partecipare alla loro prima campagna elettorale, tantissimi anni fa; è quello che la spinse a lavorare per il Children's Defense Fund e a condurre la sua battaglia per la riforma sanitaria quando era first lady; è quello che l'ha portata al Senato degli Stati Uniti e ha dato forza alla sua campagna presidenziale, capace di rompere gli schemi: un desiderio incrollabile di migliorare la vita dei comuni cittadini di questo Paese, per quanto difficile possa essere quest'impresa. Ed è indubbio che quando finalmente avremo vinto la battaglia per un'assistenza sanitaria per tutti in questo Paese, il suo ruolo in quella vittoria sarà stato fondamentale. Quando trasformeremo la nostra politica energetica e sottrarremo i nostri figli alla morsa della povertà, ci riusciremo perché lei ha lavorato perché questo accadesse. Il nostro partito e il nostro Paese sono migliori grazie a lei, e io sono un candidato migliore per aver avuto l'onore di competere con Hillary Rodham Clinton.

C'è chi dice che queste primarie ci hanno lasciati un po' più deboli e un po' più divisi. Ebbene, io dico che grazie a queste primarie ci sono milioni di americani che per la prima volta in assoluto hanno espresso un voto. Ci sono elettori indipendenti ed elettori repubblicani che comprendono che in queste elezioni non si decide solamente quale partito governerà a Washington, ma si decide sulla necessità di cambiare a Washington. Ci sono giovani, afroamericani, ispanici e donne di tutte le età che sono andati a votare in massa, con numeri che hanno battuto tutti i record e hanno dato l'esempio a una nazione intera.

Tutti voi avete scelto di sostenere un candidato in cui credete profondamente. Ma in fin dei conti, non siamo noi la ragione per la quale siete usciti di casa e avete aspettato, con file che si stendevano per isolati interi, per votare e far sentire la vostra voce. Non lo avete fatto per me, o per la senatrice Clinton o per chiunque altro. Lo avete fatto perché sapete nel profondo del vostro cuore che in questo momento – un momento che sarà decisivo per una generazione intera – non possiamo permetterci di continuare a fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo il dovere di dare ai nostri figli un futuro migliore. Abbiamo il dovere di dare al nostro Paese un futuro migliore. E per tutti coloro che questa notte sognano questo futuro, io dico: cominciamo a lavorare insieme. Uniamoci in uno sforzo comune per tracciare una nuova rotta per l'America.

Tra pochissimi mesi, il Partito repubblicano arriverà qui a St. Paul, per la sua convention, con un programma diversissimo. Verranno qui per nominare come candidato alla presidenza John McCain, un uomo che ha servito questo Paese eroicamente. Io rendo onore a quello che ha fatto sotto le armi, e rispetto i tanti risultati che ha ottenuto, anche se lui sceglie di negare i miei. Non è sul piano personale che sono in disaccordo con lui: sono in disaccordo con le misure che ha proposto in questa campagna.

Perché se da un lato John McCain può legittimamente rivendicare momenti di indipendenza dal suo partito in passato, non è questa indipendenza il tratto distintivo della sua campagna presidenziale.

Non è cambiamento se John McCain ha deciso di schierarsi dalla parte di George Bush nel novantanove per cento dei casi, come ha fatto in Senato lo scorso anno. Non è cambiamento quando ci offre altri quattro anni delle politiche economiche di Bush, che non sono riuscite a creare posti di lavoro ben pagati, o ad assicurare i nostri lavoratori, o ad aiutare gli americani a sostenere i costi sempre più alti dell'università; politiche che hanno fatto calare il reddito reale delle famiglie medie americane, che hanno allargato il divario tra il grande capitale e le piccole e medie imprese e hanno lasciato ai nostri figli un debito colossale.

E non è cambiamento quando promette di proseguire, in Iraq, sulla strada di una politica che chiede tutto ai valorosi soldati, uomini e donne, che servono nelle nostre forze armate, e non chiede nulla ai politici iracheni, una politica in cui tutto quello che cerchiamo di ottenere sono ragioni per rimanere in Iraq, mentre spendiamo miliardi di dollari al mese in una guerra che non serve nel modo più assoluto a rendere il popolo americano più sicuro. Vi dirò una cosa: ci sono molte parole per definire il tentativo di John McCain di spacciare la sua acquiescenza alle politiche di Bush come una scelta di novità e imparzialità. «Cambiamento», però, non è tra queste.

Cambiamento è una politica estera che non comincia e finisce con una guerra che non avrebbe mai dovuto essere autorizzata e non avrebbe mai dovuto essere scatenata. Non verrò qui a far finta che in Iraq siano rimaste molte opzioni valide a disposizione, ma un'opzione improponibile è quella di lasciare i nostri soldati in quel Paese per i prossimi cent'anni, specialmente in un momento in cui le nostre forze armate sono al limite delle loro possibilità, la nostra nazione è isolata e quasi tutte le altre minacce che gravano sull'America vengono ignorate.

Dovremo essere tanto accorti nell'uscire dall'Iraq quanto poco accorti siamo stati nell'entrarvi, ma dobbiamo cominciare ad andarcene. È tempo che gli iracheni si assumano la responsabilità del loro futuro. È tempo di ricostruire le nostre forze armate e dare ai nostri veterani l'assistenza di cui hanno bisogno e le indennità che meritano, quando fanno ritorno a casa. È tempo di tornare a concentrare i nostri sforzi sulla leadership di al-Qaida e sull'Afghanistan, e di unire il mondo per combattere le minacce comuni del XXI secolo: il terrorismo e le armi nucleari, i cambiamenti climatici e la povertà, i genocidi e le malattie. Questo è il cambiamento.

Cambiamento è capire che per affrontare le minacce dei nostri giorni non basta la nostra potenza di fuoco, ma serve anche la forza della nostra diplomazia, una diplomazia decisa e diretta, in cui il presidente degli Stati Uniti non abbia paura di far sapere a qualsiasi dittatorucolo qual è la posizione dell'America e per che cosa si batte l'America. Dobbiamo tornare ad avere il coraggio e la convinzione per guidare il mondo libero. Questa è l'eredità di Roosevelt, e di Truman, e di Kennedy. Questo è quello che vuole il popolo americano. Questo è il cambiamento.

Cambiamento è costruire un'economia che non ricompensi soltanto i ricchi, ma il lavoro e i lavoratori che l'hanno creata. È comprendere che le difficoltà che devono affrontare le famiglie dei lavoratori non possono essere risolte spendendo miliardi di dollari in altri sgravi fiscali per le grandi aziende e per i ricchi supermanager, ma offrendo uno sgravio fiscale alla classe media, e investendo nelle nostre infrastrutture fatiscenti, e cambiando il modo di usare l'energia, e migliorando le nostre scuole, e rinnovando il nostro impegno in favore della scienza e dell'innovazione. È comprendere che rigore di bilancio e prosperità diffusa possono andare a braccetto, come accadde quando era presidente Bill Clinton.

John McCain ha speso un mucchio di tempo a parlare di viaggi in Iraq, in queste ultime settimane, ma forse se avesse speso un po' di tempo a viaggiare nelle città grandi e piccole che sono state colpite più duramente di tutte da questa economia – nel Michigan, nell'Ohio e proprio qui in Minnesota – comprenderebbe che tipo di cambiamento sta cercando la gente.

Forse se andasse nell'Iowa e incontrasse la studentessa che dopo un giorno intero a seguire le lezioni lavora la notte e nonostante questo non riesce comunque a pagare le cure mediche per una sorella ammalata, capirebbe che lei non può permettersi altri quattro anni di un sistema sanitario che va a vantaggio solo di chi è ricco e sano. Lei ha bisogno che noi approviamo una riforma sanitaria che garantisca un'assicurazione a tutti gli americani che la desiderano, e che faccia scendere il costo dei premi assicurativi per tutte le famiglie che ne abbiano bisogno. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

Forse se andasse in Pennsylvania e incontrasse l'uomo che ha perso il suo lavoro ma non ha neanche i soldi per pagarsi la benzina per girare alla ricerca di un altro lavoro, capirebbe che non possiamo permetterci altri quattro anni di dipendenza dal petrolio dei dittatori. Quell'uomo ha bisogno che noi approviamo una politica energetica che insieme alle case automobilistiche migliori i parametri di efficienza energetica dei carburanti, e che faccia in modo che le grandi aziende paghino per l'inquinamento che producono, e che faccia in modo che le compagnie petrolifere investano i loro profitti da record in un futuro di energia pulita; una politica energetica che creerà milioni di nuovi posti di lavoro ben pagati e che non potrà essere delegata ad altri Paesi. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

E forse se avesse passato un po' di tempo nelle scuole della Carolina del Sud o di St. Paul, o dove ha parlato questa sera, a New Orleans, capirebbe che non possiamo permetterci di lesinare soldi per il programma per l'infanzia No Child Left Behind; che è un dovere verso i nostri figli investire nell'istruzione per la prima infanzia, reclutare un esercito di nuovi insegnanti e offrire loro una paga migliore e maggiore sostegno, decidere finalmente che in questa economia globale l'occasione di avere un'istruzione universitaria non dovrebbe essere un privilegio riservato a pochi ricchi, ma un diritto inalienabile di ogni americano. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno in America. È per questo che io corro per la presidenza.

L'altra parte verrà qui a settembre e offrirà una serie di politiche e di posizioni molto diverse, e questo è un dibattito che io aspetto con impazienza. È un dibattito che il popolo americano si merita. Ma quello che non si merita è un'altra elezione governata dalla paura, dalla diffamazione e dalla divisione. Quello che non sentirete da questa campagna o da questo partito è quel genere di politica che usa la religione come un elemento di divisione e il patriottismo come una clava, quella politica che vede i nostri avversari non come concorrenti da sfidare ma come nemici da demonizzare. Perché noi possiamo definirci Democratici e Repubblicani, ma siamo prima di tutto americani. Siamo sempre prima di tutto americani.

Nonostante quello che ha detto stasera l'ottimo senatore dell'Arizona, io ho visto molte volte, nei miei vent'anni di vita pubblica, persone di idee e opinioni differenti trovare un terreno d'incontro, e io stesso in molte occasioni ho creato questo terreno d'incontro. Ho camminato sottobraccio con leader di quartiere nel South Side di Chicago, e ho visto stemperarsi le tensioni tra neri, bianchi, e ispanici mentre lottavano insieme per avere un buon lavoro e una buona istruzione. Sono stato seduto a uno stesso tavolo con rappresentanti della magistratura e delle forze dell'ordine e sostenitori dei diritti umani per riformare un sistema della giustizia penale che ha mandato tredici innocenti nel braccio della morte. E ho lavorato insieme ad amici dell'altro partito per garantire un'assicurazione sanitaria a un maggior numero di bambini e uno sgravio fiscale a un maggior numero di famiglie di lavoratori; per frenare la proliferazione delle armi nucleari e per fare in modo che il popolo americano sappia dove vengono spesi i soldi delle sue tasse; e per ridurre l'influenza dei lobbisti che troppo spesso stabiliscono le priorità a Washington.

Nel nostro Paese, io ho scoperto che questa collaborazione non avviene perché siamo d'accordo su ogni cosa, ma perché dietro a tutte le etichette e false divisioni e categorie che ci definiscono, al di là di tutti i battibecchi e le schermaglie politiche a Washington, gli americani sono un popolo onesto, generoso, compassionevole, unito da sfide e speranze comuni. E in certi momenti, è a questa bontà di fondo che si fa appello per tornare a far grande questo Paese.
Così è stato per quel gruppo di patrioti riuniti in una sala a Filadelfia, che dichiararono la formazione di una più perfetta unione; e per tutti coloro che sui campi di battaglia di Gettysburg e di Antietam [luoghi di importanti battaglie della Guerra di secessione, ndt] si impegnarono fino allo spasimo per salvare quella stessa unione.

Così è stato per la più grande delle generazioni, che sconfisse la paura stessa e liberò un continente dalla tirannia facendo di questo Paese una terra di opportunità e prosperità senza limiti.
Così è stato per i lavoratori che hanno tenuto duro nei picchetti; per le donne che hanno infranto il soffitto di cristallo; per i bambini che sfidarono il ponte di Selma [allusione a un famoso episodio delle lotte per i diritti civili degli anni '60, ndt] per la causa della libertà.
Così è stato per ogni generazione che ha affrontato le sfide più grandi, contro ogni speranza, per lasciare ai loro figli un mondo che è migliore, più buono e più giusto.

E così dev'essere per noi.

America, questo è il nostro momento. Questa è il nostro tempo. Il tempo di voltare pagina rispetto alle politica del passato. Il tempo di apportare una nuova energia e nuove idee alle sfide che abbiamo di fronte. Il tempo di offrire una direzione nuova al Paese che amiamo.

Il viaggio sarà difficile. La strada sarà lunga. Io affronto questa sfida con profonda umiltà e consapevolezza dei miei limiti. Ma l'affronto con una fede illimitata nella capacità del popolo americano. Perché se siamo pronti a lavorare per questo obbiettivo, e a lottare per questo obbiettivo, e a credere in questo obbiettivo, allora sono assolutamente certo che le generazioni future potranno guardarsi indietro e dire ai nostri figli che questo fu il momento in cui cominciammo a offrire assistenza sanitaria per gli ammalati e un buon lavoro ai disoccupati; questo fu il momento in cui l'innalzamento dei mari cominciò a rallentare e il nostro pianeta cominciò a guarire; questo fu il momento in cui mettemmo fine a una guerra e garantimmo la sicurezza della nostra nazione e ripristinammo l'immagine dell'America come ultima e migliore speranza per il pianeta. Questo fu il momento – questo fu il tempo – in cui ci unimmo per ricostruire questa grande nazione in modo tale da rispecchiare la nostra vera identità e i nostri più alti ideali. Grazie, che Dio vi benedica e che Dio benedica l'America.

Mercoledì, 5 Novembre, 2008 - 11:57

nuovo piano provinciale dei rifiuti: un'occasione persa!

Riprendo e sviluppo alcune considerazioni già espresse dal collega Angelo Valdameri di Zona 6 e invito tutti a partecipare al convegno "DALLA TERRA ALLA TERRA" che si terrà il 15 novembre prossimo sul tema della raccolta differenziata.

Dunque: Approvato il Piano Rifiuti da parte del Consiglio provinciale.
Già! Approvato il NUOVO (!!) Piano Rifiuti della Provincia.
Il documento approvato accoglie le prescrizioni della Regione –espressione di una visione vecchia della gestione dei rifiuti- e quindi amplia la quantità di rifiuti da smaltire (nonostante le norme prevedano l’impegno primario di riduzione della quantità di rifiuti), e invita a localizzare un nuovo inceneritore.
E qui c’è l’inghippo, come dice Angelo: nel nuovo Piano approvato, là dove si dice che non potrà essere realizzato nei parchi regionali, si esclude espressamente il Parco Agricolo Sud. Come se quest’ultimo non fosse un parco a tutti gli effetti: della serie, ci sono parchi di serie A e parchi di serie B; natura di serie A e natura di serie B.

E quale è quella di serie B?!?! Quella che ha una vocazione agricola!!! Quella che produce foraggio per le vacche da latte e per il bestiame di cui ci nutriamo; quella che produce ortaggi e frutta che poi mangiamo!!!
Qualcuno anni fa scrisse: chi inquina l'acqua prima o poi la beve!!
Idem con ciò che mangiamo: prima o poi ce lo inquiniamo da soli!!!

Nel contempo è passato un emendamento del PD che dice no a nuovi impianti a Milano .... vicino al Parco Sud! Angelo ci riferisce che Penati si è comunque già dichiarato possibilista (della serie: “no, ma anche..”?!) dicendo che “il Piano non esclude nulla – ed è vero – con la Regione lavoreremo per definire la nuova localizzazione”!
Siamo alle solite:

  1. il Parco Sud viene inteso come terra di conquista e come territorio in cui allocare tutto quello che la città respinge, dall’inceneritore, agli sfasciacarrozze, alle discariche, alle cave riadattate, come spazio vuoto da riempire con ospedali, centri di ricerca e centri congressi ecc. Beh, la presenza dell'Istituto Europeo Oncologico, IEO, e del CERBA è quanto mai provvidenziale: studieranno e cureranno le persone ammalate di tumori, anche quelli provocati dall'inquinamento da diossina, nanoparticelle, polveri sottili ecc. che le amministarzioni pubbliche invece di diminuire aiutano ad accrescere con gli inceneritori!!
    Non basta l'inquinamento veicolare e da riscaldamento?!?
  2. La gestione dei rifiuti non è intesa in maniera proattiva, come indirizzo e prescrizione verso un modello sociale virtuoso e ambientalmente sostenibile, ma come mero compito di “eliminazione” degli scarti della società, che devono “sparire” dalla faccia della terra: poveri rifiuti! Reietti e rifiutati!
 
Concordo con Angelo: manca, sia a destra che a sinistra, una vera cultura ambientalista che preservi il territorio e l’ambiente, che prenda consapevolezza che i rifiuti sono ancora delle risorse, ricche di materie che non debbono essere distrutte e incenerite, ma recuperate nel vero senso della parola e non con giochi di parole (v. i “Termovalorizzatori”).
Le future generazioni hanno il sacrosanto diritto di ricevere in eredità qualcosa, non un pianeta consumato e incenerito!
Un altro “inghippo” è l’illusione che questo piano rifiuti sia coerente con il principio di autonomia e prossimità nella gestione dei rifiuti.
Con la costruzione di inceneritori non sarà così!!!
Infatti i residui degli inceneritori (molto più tossici dei rifiuti in ingresso!) devono essere smaltiti FUORI provincia: gli scarti devono essere smaltiti in discariche per rifiuti tossici che in provincia di Milano non esistono e le polveri sottili vengono esportate in Germania!!!
La Provincia di Milano ha perso l’occasione di incentivare e prescrivere:
1.    riduzione della quantità di rifiuti prodotti, in primis i rifiuti da imballaggio (se l’amministrazione favorisse la filiera dell’“imballaggio a rendere”, come una volta c’era il vuoto a rendere, sono certa che le imprese per prime e “volontariamente” troverebbero soluzioni più economiche e più facilmente gestibili, tramite la riduzione della quantità di imballaggi utilizzati);
2.    sviluppo della raccolta differenziata e dell’umido (che rappresenta il 30-40% dei rifiuti):
-         basterebbero centri per la produzione di compost (=dalla terra alla terra),
-         piattaforme di recupero e riciclo dei rifiuti destinati a rientrare nelle rispettive filiere e
-         discariche per il rimanente residuo secco, che potrebbe rappresentare il 5-10% dei rifiuti prodotti e non sarebbe tossico quanto il residuo degli inceneritori (potendo così essere smaltito in discariche per rifiuti urbani non tossici).
Invece siamo ancora fermi al vecchio approccio basato su: smaltire in discarica e bruciare.
Tra inceneritori e discariche … arriveremo a dover dire: meglio le discariche perché le future generazioni potranno almeno recuperare le risorse sotterrate dai loro avi nel 20° e 21° secolo! Con gli inceneritori si troveranno tra le mani solo polvere!!!
Altro che NUOVO PIANO RIFIUTI!
Questo piano nasce già vecchio, ossia come espressione di una impostazione, di una mentalità vecchia e drammaticamente superata, insomma MIOPE, perché non guarda al di là del proprio naso, non guarda al futuro, non considera la necessità di preservare le risorse del pianeta!!!

Vi invito tutti/e a partecipare al
CONVEGNO CON PATROCINIO UNESCO SUL TEMA DELLA RD UMIDO: DALLA TERRA ALLA TERRA
Quando: 15 novembre 2008 20.30
Dove: Auditorium San Carlo, Corso Matteotti 14, Milano (MM1 San Babila)
Gli Amici di Beppe Grillo di Milano e l’Associazione Grilli Altoparlanti di Milano, in collaborazione con UNESCO, in occasione della Settimana dell’Educazione allo Sviluppo Sostenibile, organizzano per sabato 15 Novembre 2008, presso Auditorium San carlo, Corso Matteotti 14, Milano (MM1 San Babila) un convegno dal titolo "Dalla Terra alla Terra".
La serata tratterà il tema dei rifiuti organici, la loro gestione ed il tema del compostaggio, nel contesto attuale della partenza, da Gennaio 2009 e per i sei mesi successivi, della sperimentazione in alcune zone di Milano (Bovisa, Villette San Siro, P.zza Firenze/Accursio) della raccolta differenziata dell’umido da parte di AMSA, in cui si vorrà verificare l’impegno in tal senso dei cittadini.

Gli Amici di Beppe Grillo di Milano si propongono si sostenere tale iniziativa, di modo da risvegliare il senso civico dei milanesi, convinti che i più elevati livelli di recupero (in alcune città italiane, come Novara, siamo oltre il 70%, mentre a Milano il dato è del 43%) siano conseguiti in presenza di servizi dedicati alla raccolta differenziata di organico/umido particolarmente efficaci.
Riteniamo che il potenziamento della Raccolta Differenziata sia da perseguirsi per ridurre l’utilizzo degli impianti di incenerimento, in quanto nocivi per la salute e costosi per i cittadini; la Raccolta Differenziata anche della frazione umida favorirebbe inoltre la creazione di lavoro, nonché il rispetto dell’ambiente, tramite il recupero dell’organico come concime sotto forma di Compost, con la conseguente riduzione dell’utilizzo dei fertilizzanti chimici.
Due gli esperti che parteciperanno alla serata: Enzo Favoino e Massimo Centemero.
Di seguito un breve estratto dei loro curriculum:
Enzo Favoino
della Scuola Agraria del Parco di Monza, vice-presidente dello European Compost Network. Esperto di sistemi di raccolta differenziata e di strategie sostenibili di gestione dei rifiuti, advisor dell'Unione Europea, di diversi Governi Esteri e di Amministrazioni Locali su rifiuti, cambiamento climatico e strategie di sostenibilità. La Scuola Agraria ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo dei sistemi intensivi di raccolta differenziata in Italia ed altri Paesi Europei.
Enzo Favoino è membro di Zero Waste.
Massimo Centemero
Coordinatore del CT, agronomo, ha operato dal 1991 al 2005 presso il Gruppo di Studio sul Compostaggio della Scuola Agraria del Parco di Monza. Dal 2001 è coordinatore del Comitato Tecnico del Consorzio Italiano Compostatori. Ha partecipato a diversi Gruppi di Lavoro sia con l'Unione Europea (Ecolabel for Soil Improvers and Growing media), le amministrazioni locali (Province, Regioni) e i Ministeri (Ministero dell'Ambiente, Ministero Risorse Agricole, sottocommissioni ex legge 748/84, GDL sull'Agricoltura Biologica) in sede di definizione degli standard di qualità del compost e dei prodotti derivati dal trattamento biologico.
IL TEMA E' IMPORTANTE E QUANTO MAI ATTUALE!
Mercoledì, 5 Novembre, 2008 - 09:44

Approvato il Piano Rifiuti da parte del Consiglio provinciale

Approvato il Piano Rifiuti da parte del Consiglio provinciale.
E’ stato approvato il nuovo Piano Rifiuti della Provincia. Dopo che nei giorni scorsi Rifondazione Comunista aveva minacciato l’uscita dalla Giunta Penati se fosse stato approvato il Piano Rifiuti senza che si togliesse la possibilità di realizzare il nuovo inceneritore, ieri è stato approvato  con il voto favorevole di PD, Italia dei valori e Socialisti: astenuti PRC,Verdi e Sinistra Democratica. Contrari Pdci, Udc e Sinistra Critica; Pdl e Lega non hanno partecipato al voto.
Il documento approvato accoglie le prescrizioni della Regione che amplia la quantità di rifiuti da smaltire, ma però invita a localizzare un nuovo inceneritore. E qui c’è l’inghippo: nel nuovo Piano approvato, là dove si dice che non potrà essere realizzato nei parchi regionali, con l’esclusione però del Parco Agricolo Sud. Come se quest’ultimo non fosse un parco a tutti gli effetti. Nel contempo è passato un emendamento del PD che dice no a nuovi impianti a Milano ....vicino al Parco Sud!. Penati però si è già dichiarato possibilista dicendo che “il Piano non esclude nulla – ed è vero – con la Regione lavoreremo per definire la nuova localizzazione”!. Siamo alle solite: il Parco Sud viene inteso come terra di conquista e come territorio da allocare tutto quello che la città respinge, dall’inceneritore, agli sfasciacarrozze, alle discariche, alle cave riadattate. Manca, sia a destra che a sinistra, una vera cultura ambientalista che preservi il territorio e l’ambiente. Una risorsa unica in Europa, come il parco agricolo Sud, dovrebbe essere valorizzata, salvaguardata e incentivata.
A.Valdameri, consigliere di zona 6 Lista Fo
Martedì, 4 Novembre, 2008 - 15:33

per un 4 novembre diverso: L’obbedienza non è più una virtù

Per un 4 novembre diverso, conviene leggersi -o rileggersi- lo scritto di Don Milani
"L’obbedienza non è più una virtù".

Il testo che riporto in allegato costò a don Lorenzo Milani, priore del minuscolo e poverissimo borgo montanaro di Barbiana, nel Mugello, un processo per apologia di reato.
Scritto nel febbraio del 1965, è indirizzato ai cappellani militari toscani che in un comunicato avevano definito l'obiezione di coscienza (fino al 1972 assimilata alla renitenza alla leva e alla diserzione) «estranea al comandamento cristiano dell'amore» e «espressione di viltà».
Milani stesso raccontò più tardi che un ritaglio di giornale col comunicato dei cappellani gli era stato portato da un amico mentre come sempre stava con i suoi ragazzi: l'attività quasi esclusiva del priore a Barbiana era infatti quella scuola popolare (attiva «dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno») che avrebbe di lì a poco prodotto Lettera a una professoressa, il più radicale pamphlet contro la scuola di classe mai scritto in Italia.
Lo sdegno dei ragazzi per il fatto che nessuna autorità, né civile né religiosa, avesse reagito al pronunciamento dei cappellani rafforza nel priore la scelta di prendere posizione.
Dalle ricerche e gli studi fatti con i suoi scolari nasce la Lettera ai cappellani militari, dapprima stampata e diffusa in mille copie e poi ripresa dal settimanale del Partito comunista italiano Rinascita.
Scoppia un caso: una campagna stampa denigratoria e ostile, una pioggia di lettere anonime, la minaccia della sospensione a divinis per Milani, la denuncia, per Milani e il direttore di Rinascita Luca Pavolini.
Milani si autodifende rincarando la dose in una famosa Lettera ai giudici.
Entrambi gli imputati vengono assolti in primo grado «perché il fatto non costituisce reato».
Nel processo d'appello Pavolini sarà condannato a cinque mesi e dieci giorni,
nel caso del priore «il reato è estinto per morte del reo»: Lorenzo Milani era morto di cancro ai polmoni, a 44 anni, il 26 giugno 1967.

Martedì, 4 Novembre, 2008 - 12:36

IL DISCORSO INTEGRALE DI BARACK OBAMA A BERLINO

IL DISCORSO INTEGRALE DI BARACK OBAMA A BERLINO
(24 luglio 2008)
Ringrazio i cittadini di Berlino e tutto il popolo tedesco. Vorrei ringraziare anche il Cancelliere Signora Merkel e il ministro degli Esteri Steinmeier per l’accoglienza che mi hanno riservato. Grazie al sindaco Wowereit, ringrazio il Senato di Berlino, le forze di polizia. Soprattutto grazie per questo vostro benvenuto.
Io vengo a Berlino seguendo le orme di molti miei concittadini venuti prima di me. Questa sera vi parlo non come candidato alle elezioni presidenziali, ma come cittadino, un cittadino degli Stati Uniti fiero di essere tale e un cittadino del mondo dunque anche vostro concittadino.
So di non somigliare agli altri americani che prima di me hanno tenuto discorsi in questa grande città. La strada che mi ha condotto qui è stata fortuita. Mia madre è nata nell’entroterra d’America, mio padre, invece, è nato in Kenya, dove fin da piccolo pascolava capre. Suo padre, mio nonno, faceva il cuoco e serviva nelle case degli inglesi.
Nel bel mezzo della guerra fredda mio padre decise, e come lui molti che vivevano negli angoli più sperduti della terra, che il suo sogno, la sua grande aspirazione richiedevano, per realizzarsi, la libertà e le opportunità che l’Occidente prometteva. Così scrisse lettere a molte università sparse per tutta l’America finché qualcuno, da qualche parte, raccolse il suo appello per una vita migliore.
Ecco perché sono qui. E voi siete qui perché anche voi conoscete quel tipo di aspettativa. Questa città, più di qualunque altra, conosce l’anelito alla libertà. Voi tutti sapete che la sola ragione per cui siamo qui riuniti stasera è perché donne e uomini di entrambe le nostre nazioni si sono uniti, anche lottando e sacrificandosi, per ottenere questa vita migliore.
Il nostro è un sodalizio cominciato nell’estate di sessant’anni fa, il giorno in cui il primo aereo americano toccò il suolo di Templehof.
All’epoca, gran parte di questo continente era ancora in rovina. Eppure, le macerie di questa città un giorno sarebbero servite a erigere un muro. L’ombra Sovietica si era allungata su tutta l’Europa orientale, mentre in Occidente l’America, la Gran Bretagna e la Francia inventariavano le loro perdite e meditavano su come si sarebbe potuto ricostruire il mondo.
E’ qui che le due parti si sono incontrate. E il 24 giugno 1948 i comunisti decisero di isolare la parte occidentale della città. Tagliarono alimenti e forniture a più di due milioni di tedeschi, cercando così di spegnere l’ultimo guizzo di libertà nella città di Berlino.
Le nostre forze non potevano reggere il confronto con la ben più potente armata sovietica. E tuttavia una nostra ritirata avrebbe permesso al comunismo di marciare sull’Europa. Laddove era finita l’ultima guerra mondiale avrebbe potuto facilmente iniziarne un’altra. Rimaneva un solo ostacolo: Berlino.
E fu allora che cominciò il ponte aereo. Fu allora che la più vasta e più improbabile operazione di soccorso della storia portò cibo e speranza alla gente di questa città.
Tutto sembrava ostacolare il successo dell’operazione. D’inverno il cielo era reso impraticabile da una fitta nebbia e molti aerei furono costretti a tornare indietro senza poter depositare i rifornimenti necessari. Le strade dove siamo oggi in questo momento erano gremite allora di famiglie affamate che nulla proteggeva dal freddo.
Ma anche nelle ore più buie il popolo berlinese manteneva accesa la fiamma della speranza. Era un popolo che si rifiutava di arrendersi. Finché un giorno d’autunno centinaia di migliaia di berlinesi si sono radunati davanti al famoso zoo per ascoltare il sindaco della città che invocava il mondo affinché non rinunciasse al sogno della libertà. “Abbiamo una sola possibilità – disse – che è quella di rimanere uniti finché questa battaglia non sarà vinta… La gente di Berlino ha parlato. Noi tutti abbiamo fatto il nostro dovere e continueremo a farlo. Gente del mondo intero, ora sta a voi fare il vostro dovere… Popoli di tutto il mondo, volgete il vostro sguardo a Berlino!”
Popoli di tutto il mondo rivolgete lo sguardo a Berlino!
Guardate Berlino, dove tedeschi e americani hanno imparato a lavorare insieme e a fidarsi gli uni degli altri ad appena tre anni dalla fine del sanguinoso conflitto che li ha visti nemici.
Guardate Berlino, dove la determinazione di un popolo ha incontrato la generosità del piano Marshall e ha dato vita al miracolo tedesco, dove una vittoria sulla tirannia ha portato al patto atlantico, la più grande alleanza mai stretta per difendere la sicurezza di noi tutti.
Guardate Berlino, dove i buchi delle pallottole negli edifici e nei cupi pilastri poco distanti dalla porta di Brandeburgo ci ricordano che non dobbiamo mai dimenticare la nostra comune appartenenza alla stessa famiglia umana.
Popoli di tutto il mondo guardate Berlino, dove è caduto un muro e un continente si è riunito e la storia ha potuto dimostrare che non esiste sfida troppo ardita per un mondo che non vuole essere diviso.
Sessant’anni dopo il ponte aereo, di nuovo la storia fa appello a tutti noi. Questa storia ci ha condotti a un nuovo bivio, con nuove promesse e nuovi pericoli. Quando voi tedeschi avete abbattuto quel muro – un muro che divideva l'Oriente dall’Occidente, la libertà dalla tirannia, la paura dalla speranza – molti altri muri sono crollati nel resto del mondo. Da Kiev a Cape Town, chiusi i campi di prigionia, aperte le porte alla democrazia. Anche i mercati si sono aperti mentre l’informazione e la tecnologia abbattevano via via ogni ostacolo alla prosperità e alle opportunità di vita. Mentre il ventesimo secolo ci ha insegnato che condividiamo un destino comune, il ventunesimo secolo ci sta svelando un mondo che interagisce intensamente come mai prima nella storia dell’umanità.
La caduta del muro di Berlino ha portato una nuova speranza. Eppure proprio questa riunificazione ha determinato nuovi pericoli che i confini di un solo Paese non riescono a contenere e neanche la distesa di un oceano.
I terroristi dell’11 settembre hanno ordito il loro complotto ad Amburgo e sono stati addestrati a Kandahar e Karachi per poi uccidere sul suolo americano migliaia di persone del mondo intero.
Mentre parliamo, le automobili di Boston e le industrie di Pechino stanno sciogliendo la calotta artica, erodendo le coste dell’Atlantico e portando siccità ai terreni agricoli dal Kansas al Kenya.
Le scorie nucleari malamente custodite nelle centrali della ex Unione Sovietica, o i segreti celati da uno scienziato pachistano potrebbero dar luogo a una bomba da far esplodere, chissà, a Parigi. I papaveri dell’Afghanistan diventano l’eroina che circola qui a Berlino. La povertà e la violenza in Somalia anch’esse alimentano il terrore di domani. Il genocidio nel Darfur ammanta di vergogna la coscienza di noi tutti.
In questo nuovo mondo tali correnti pericolose corrono più veloci dei nostri sforzi per contenerle. Ecco perché non possiamo permetterci di essere divisi. Nessuna nazione per quanto grande e potente può da sola sconfiggere questi nemici. Nessuno di noi può negare queste minacce o scaricare la propria responsabilità nel farvi fronte. Eppure, in assenza dei carri armati sovietici e di quel terribile muro, dimentichiamo con troppa facilità quanto tutto questo sia vero. Se siamo onesti gli uni con gli altri, possiamo riconoscere che a volte, su entrambe le sponde dell’Atlantico, abbiamo ceduto a una certa divergenza di opinioni dimenticando il nostro destino comune.
In Europa troppo spesso purtroppo si pensa che l’America faccia parte degli aspetti negativi del nostro mondo, invece di essere vista come una forza che può aiutare a renderlo più giusto. In America c’è chi deride e nega l’importanza del ruolo che ha l’Europa nel nostro futuro e nella tutela della nostra sicurezza. In entrambi questi punti di vista manca quell’aspetto di verità che consiste nell’ammettere che gli europei di oggi si fanno carico di nuovi oneri e di nuove responsabilità anche in regioni critiche del mondo, proprio come fecero gli americani costruendo le loro basi nel secolo scorso, basi che tuttora tutelano la sicurezza di questo continente. E allo stesso modo il nostro paese ancora si sacrifica in grande misura per la libertà in tutto il pianeta.
Sì, ci sono state divergenze fra l’America e l’Europa. E senza dubbio altre ce ne saranno in futuro. Tuttavia, gli oneri di questa “cittadinanza globale” continuano a tenerci uniti. Non sarà un cambio della leadership a Washington a sollevarci da queste responsabilità. In questo nuovo secolo, si richiede sia agli americani che agli europei di fare di più , e non certo di meno. La collaborazione e il sodalizio fra nazioni non è una scelta, è una strada obbligata, la sola via da percorrere per proteggere la nostra comune sicurezza e per portare avanti l’umanità di cui tutti siamo parte.
Ecco perché il pericolo più grave fra tutti è quello di permettere che nuovi muri ci dividano. Muri fra gli alleati delle due sponde dell’Atlantico non potranno mai reggere, così come non reggeranno muri che dividano i paesi che hanno tutto da quelli che non hanno niente. Muri fra razze e tribù, fra nativi di uno stato e immigrati, muri che dividano cristiani, mussulmani ed ebrei. Sono questi i muri che oggi ci si chiede di abbattere.
Sappiamo bene che già prima d’oggi muri simili si sono infranti. Dopo secoli di guerre, i popoli europei hanno dato vita a un’Unione fatta di promesse e prosperità. Qui, oggi, ai piedi di questo stele alla vittoria in guerra, noi ci incontriamo nel cuore di un’Europa in pace. Non soltanto è stato abbattuto il muro di Berlino, ma altri ne sono crollati a Belfast, dove protestanti e cattolici hanno trovato un modo per convivere civilmente, nei Balcani, dove grazie alla nostra alleanza atlantica sono finiti i conflitti e i criminali di guerra sono stati consegnati alla giustizia e poi in Sudafrica, dove la lotta di persone coraggiose ha finalmente sconfitto l’Apartheid.
In altre parole, la storia ci ricorda sempre che i muri possono essere abbattuti. Il compito, tuttavia, non è mai facile. Il vero sodalizio e i veri progressi richiedono un lavoro costante e un livello di sacrificio sempre alto. Bisogna condividere il peso dello sviluppo e degli sforzi diplomatici, del progresso e della pace. Bisogna che gli alleati si ascoltino gli uni con gli altri, imparino sempre qualcosa gli uni dagli altri, e soprattutto si fidino gli uni degli altri.
Per questa ragione né all’America né all’Europa è consentito di ripiegarsi su se stesse. L’America non potrebbe avere alleato migliore dell’Europa. E’ arrivato il momento di costruire nuovi ponti su tutto il pianeta, ponti solidi come quello che collega noi americani a voi alleati europei attraverso l’Atlantico. E’ venuto il momento di unirsi attraverso una collaborazione costante, istituzioni forti, sacrifici condivisi e un impegno globale per il progresso, volto ad affrontare le sfide del 21 esimo secolo. Fu questo lo spirito che condusse sopra Berlino gli apparecchi del ponte aereo nel 1948. Fu questo lo spirito che radunò allora il popolo berlinese proprio qui, dove siamo noi stasera. E’ arrivato il momento per il nostro paese, per il vostro, e per tutte le nazioni, di risvegliare quello spirito a nuova vita.
E’ arrivato il momento di sgominare il terrorismo e di prosciugare il pozzo degli estremismi che lo sostengono. Qui si parla di una minaccia reale e nessuno di noi può tirarsi indietro e rifiutare la responsabilità di combatterla. Come siamo stati capaci di fondare la NATO per far fronte all’Unione Sovietica, così saremo in grado di unirci in un nuovo sodalizio globale capace di smantellare la rete (terroristica) che ha colpito il mondo da Madrid ad Amman, da Londra a Bali, da Washington a New York. Se siamo riusciti a vincere la battaglia ideologica contro il comunismo, riusciremo anche a fare fronte comune con la maggioranza dei mussulmani, quelli cioè che rifiutano l’estremismo in quanto fonte di odio anziché di speranza.
E’ arrivato il momento di rinnovare il nostro fermo impegno a snidare i terroristi che minacciano la nostra sicurezza in Afghanistan e i trafficanti che spacciano droga nelle vostre strade. Nessuno auspica la guerra. Prendo atto delle enormi difficoltà in Afghanistan. E tuttavia, il mio e il vostro paese devono puntare al successo di questa prima missione della NATO oltre i confini dell’Europa. Per il popolo Afgano e per la sicurezza di noi tutti, la missione dovrà essere compiuta. L’America non può farcela da sola. Il popolo afgano ha bisogno delle nostre come delle vostre truppe, del nostro come del vostro appoggio per battere Al Qaeda e i Talebani, per far avanzare la sua economia, per riuscire a ricostruire il paese. Troppo alta è la posta in gioco per ritirarsi.
E’ arrivato il momento di ribadire il nostro obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari. Le due superpotenze che si sono affrontate in questa città da una parte all’altra del muro, troppo spesso sono arrivate molto vicine a distruggere ciò che tutti noi abbiamo costruito e che amiamo. Caduto quel muro, non dobbiamo tuttavia abbassare la guardia e assistere senza battere ciglio all’ulteriore espandersi di quell’atomo letale. E’ urgente ormai rendere inoffensivi tutti i detriti nucleari sparsi sul pianeta, fermare la corsa agli armamenti nucleari e ridurre gli arsenali che ormai appartengono a un’altra era. Questo è il momento di perseguire la pace in un mondo definitivamente libero dalle armi nucleari. Per ogni nazione europea, è giunto infine il momento di determinare il proprio futuro, un futuro libero dalle ombre del passato. In questo secolo, abbiamo bisogno di un’Unione Europea forte, che consolidi al massimo la sicurezza e la prosperità di questo continente, pur non negando un aiuto ad altri. In questo secolo - e proprio in questa “città delle città” - dobbiamo ripudiare la mentalità da guerra fredda che ha funestato il nostro passato e deciderci a collaborare, quando è possibile, con la Russia, a difendere i nostri valori quando è necessario a perseguire un sodalizio che coinvolga la totalità di questo continente.
E’ arrivato il momento di costruire sulla ricchezza che i liberi mercati hanno creato e di suddividere in modo più equo i suoi benefici. Il (libero) commercio ha rappresentato una pietra miliare sul cammino della nostra crescita e dello sviluppo globale. Tuttavia, si tratta di una crescita che non saremo in grado di sostenere se essa rimarrà appannaggio di pochi e non patrimonio di molti. Insieme, dovremo creare un mercato volto a compensare concretamente quel lavoro che ha permesso la ricchezza, e proteggere con forza le nostre popolazioni e il nostro pianeta. E’ giunto il momento di aderire a un mercato che sia davvero libero ed equo per tutti.
Questo è il momento in cui noi tutti dobbiamo contribuire a dare una risposta all’attesa di “un’alba nuova” in Medio Oriente. Il mio paese deve unirsi al vostro e all’Europa tutta nell’indirizzare all’Iran un messaggio chiaro e cioè che dovrà abbandonare le sue ambizioni nucleari. Dobbiamo appoggiare i libanesi che hanno lottato e dato il loro sangue per la democrazia, dobbiamo appoggiare gli israeliani e i palestinesi che sono alla ricerca di una pace lunga e duratura. Malgrado i dissapori del passato, in questo momento il mondo intero dovrebbe aiutare i milioni di iracheni che stanno tentando di ricostruire le loro vite. Questo avverrà anche grazie al passaggio delle consegne al governo iracheno mentre cercheremo di porre fine a questa guerra.
E’ il momento di unirci tutti per salvare questo nostro pianeta. Dobbiamo decidere tutti, unanimemente, che non lasceremo ai nostri figli un pianeta dove le acque degli oceani salgono mentre la siccità e la fame dilagano e tempeste violentissime devastano i nostri paesi. Stabiliamo che ciascuno dei nostri paesi, incluso il mio, dovrà agire per ridurre le emissioni di anidride carbonica nella nostra atmosfera dimostrando la stessa serietà e determinazione di cui la Germania ha sempre dato prova. E’ arrivato il momento di restituire ai nostri figli il loro futuro. E’ arrivato il momento di fare fronte comune.
Ed è anche il momento di incoraggiare coloro che sono rimasti indietro, travolti dalla globalizzazione. Dobbiamo sempre tenere a mente che la guerra fredda, nata proprio in questa città, non fu una guerra per la conquista di terre o di tesori. Sessant’anni fa, gli aerei che sorvolavano Berlino non lanciavano bombe, ma cibo, carbone e caramelle per i bambini. E in quella gara di solidarietà, i piloti vinsero ben più di una battaglia convenzionale. Conquistarono cuori e menti, amore, lealtà e fiducia e non soltanto dagli abitanti di questa città, ma da tutti quelli che seppero della loro impresa nei cieli di Berlino.
Oggi il mondo sta a guardare e ricorderà in futuro quello che stiamo facendo noi qui, e cosa ci proponiamo di fare. Il mondo si chiede se tenderemo la mano ai diseredati negli angoli più oscuri e negletti del pianeta, gente che sogna una vita all’insegna della dignità e delle opportunità, della sicurezza e della giustizia. Se salveremo i bambini del Banghladesh dall’estrema indigenza, se daremo un tetto ai profughi del Chad e se sconfiggeremo il flagello della nostra epoca, l’AIDS.
Si chiede se sosterremo i diritti umani difesi dai dissidenti birmani, i blogger in Iran e gli elettori dello Z.imbabwe. Se daremo un senso alle parole “Mai Più” (“Nie Wieder”) anche nel Darfur.
Tutte le nazioni si chiedono se ci rendiamo conto che l’esempio dato al mondo da ognuno dei nostri paesi è il più forte che possa esistere. Si chiedono se metteremo al bando la tortura e se sosterremo lo stato di diritto. Se accoglieremo gli immigranti provenienti da paesi diversi mettendo fine alle discriminazioni verso chi non ha il nostro stesso colore o la nostra stessa fede. Si chiedono se manterremo la nostra promessa riguardo all’uguaglianza e alle stesse opportunità per tutti. Popolo di Berlino, nazioni di tutto il mondo, questo è il nostro momento, il nostro tempo è arrivato.
So che il mio paese non può dirsi perfetto. Ci sono stati momenti in cui è stato duro mantenere le promesse di libertà e uguaglianza fatte a tutto il nostro popolo. Abbiamo commesso la nostra parte di errori. In alcuni casi, le nostre azioni nel mondo intero non sono state all’altezza delle nostre sia pur migliori intenzioni.
Ma so altrettanto bene quanto io ami l’America. So che per oltre due secoli ci siamo battuti - con costi e sacrifici immensi - per costruire un’unione più solida e per cercare, con l’aiuto di altre nazioni, di dare nuove speranze al mondo. Nessun regno e nessuna tribù ha mai potuto vantare la nostra fedeltà esclusiva, giacché il nostro è un paese dove si parlano tutte le lingue, dove molte diverse culture hanno lasciato nella nostra la loro impronta e dove ogni opinione viene liberamente espressa sulle pubbliche piazze. Quello che ci ha sempre uniti, quello che sostiene tutto il nostro popolo e gli dà forza, quello che attirò mio padre sulle rive dell’America è un concerto di ideali che risponde alle aspirazioni di tutti : poter vivere liberi dalla paura e dalle privazioni, potersi esprimere apertamente, unirsi, associarsi con chi si desideri e infine professare liberamente la propria fede.
Queste sono le stesse aspirazioni che hanno accomunato i destini di nazioni diverse in questa città. Queste aspirazioni sono più forti di qualsiasi cosa voglia dividerci ed è in nome di queste aspirazioni che iniziò il ponte aereo e che le persone libere del mondo intero sono diventate cittadini di Berlino. E’ dunque perseguendo queste aspirazioni che la nuova generazione - la nostra generazione - deve imprimere la sua impronta al mondo.
Popolo di Berlino, popoli del mondo, questa è una sfida di enormi proporzioni. Ci aspetta un lungo cammino. Ma io sono qui fra voi per annunciarvi che siamo gli eredi di una battaglia per la libertà. Siamo un popolo di audaci speranze. Abbiamo gli occhi rivolti al futuro, il cuore traboccante di risolutezza. Teniamo a mente la storia, rispondiamo alla chiamata del nostro destino e, ancora una volta, cambiamo il mondo.
Lunedì, 3 Novembre, 2008 - 18:08

4 novembre:Non glorificare la guerra - ignoranza e falsi idoli

Ecco alcuni articoli che meritano di essere letti, perchè aiutano a riflettere.

Manifesto – 2.11.08

La Russa: il 4 novembre sarà vacanza
ROMA - Se il 2 novembre «ogni famiglia ricorda i propri morti, così la grande famiglia della Difesa ricorda i propri caduti». Questa volta il ministro Ignazio La Russa si riferisce a «quelli di ieri e quelli di oggi, quei militari che in tutte le epoche sono stati chiamati a servire la patria difendendola o operando per essa fino al sacrificio della propria vita», senza scendere in particolari. Il ministro, in competizione con il titolare del Viminale, il leghista Roberto Maroni, sulla sicurezza, aggiunge che «oggi dobbiamo ricordare anche chi, ispirato dalle stesse motivazioni, ha perduto la vita nell'adempimento del proprio dovere in patria, nella lotta alla criminalità e per cause di servizio». Poiché per il 4 novembre, festa delle forze armate, ha deciso di lanciare una campagna in grande stile, con tanto di spot in televisione, al cinema e negli stadi, il ministro della difesa e «reggente» di Alleanza nazionale annuncia poi a Gr parlamento che la ricorrenza della fine della prima guerra mondiale «sta per ridiventare non solo festa nazionale, perché lo è già, ma giorno di vacanza, esattamente come lo è il 2 Giugno e come lo è il 25 Aprile». Il novantesimo anniversario del 4 novembre prevede, oltre alla cerimonia a Roma, all'Altare della patria, un week end, il prossimo, con esibizioni delle forze armate in tutti i capoluoghi di regione e il concerto di Andrea Bocelli a Roma, a piazza del Popolo. E il ministero della difesa manderà persino militari nelle scuole, non a sostegno della legge Gelmini, ma per spiegare la prima guerra mondiale.
Non si torni a glorificare la guerra - Domenico Gallo
Come tutti sanno il 4 novembre, anniversario della fine della I guerra mondiale, ricorre la festa delle forze armate e dell'unità nazionale. Quest'anno la celebrazione della festa del 4 novembre sta diventando qualcosa di straordinario per l'attivismo del ministro della Difesa, La Russa, che ha organizzato una lunga serie di manifestazioni di vario genere e ha previsto, persino, l'invio nelle scuole di ufficiali della Forze Armate per celebrare la ricorrenza con gli studenti. In linea di principio non c'è niente di strano che un paese celebri una festa delle proprie forze armate per ricordare i caduti di tutte le guerre e non c'è niente di strano che in Italia questa data venga fissata proprio il 4 novembre, anniversario della resa dell'esercito austriaco e quindi della fine della I guerra mondiale. Tuttavia è innegabile che, in Italia, questa festa sconta un peccato originale. Essa è stata istituita, all'indomani della guerra, per celebrare la «vittoria» di Vittorio Veneto, sotto la spinta dell'esigenza di elaborare il lutto, secondo il vecchio schema della retorica patriottica, trasformando la morte in «sacrificio», in offerta generosa della vita per la salute della collettività. Per questo è stato inventato il rito del «milite ignoto», tumulato nel sacello dell'Altare della Patria il 4 novembre 1921. Nella prima metà del secolo scorso le nostre piazze e le nostre chiese, i nostri municipi si sono ammantati di lapidi che «celebravano» il sacrificio dei nostri combattenti, caduti per la Patria. Nello stesso tempo quelle lapidi chiudevano la bocca a ogni dissenso che potesse mettere in discussione i meccanismi della politica e del potere che quelle morti avevano prodotto. Morire per la Patria era un evento sacro e generoso: solo con questa trasfigurazione ideologica della morte si poteva rendere accettabile alla coscienza collettiva il peso insostenibile del dolore che aveva devastato la vita di quasi tutte le famiglie italiane (la grande guerra aveva prodotto circa 750.000 morti, il doppio dei caduti che si sarebbero avuti con la II guerra mondiale). Se nella seconda metà del secolo scorso quelle lapidi non sono state più erette, e il culto della morte non è stato più celebrato, ciò è avvenuto perché la politica (e la Costituzione) lo ha impedito. Proprio questo vuol dire il ripudio della guerra: che la morte è stata tolta dagli utensili della politica, che deve perseguire i propri legittimi obiettivi con mezzi diversi dalla violenza bellica. Sotto l'egida della Costituzione repubblicana, il mutato clima culturale, politico e istituzionale ha trasformato il senso delle celebrazioni del 4 novembre rispetto all'impostazione originaria. Senonché la situazione è cambiata con l'avvento al governo di un ceto dirigente portatore di una cultura politica estranea, se non configgente, con i valori costituzionali. Con un ministro della difesa che, con riferimento all'Afghanistan, ci ha fatto sapere di non nutrire più alcun «pregiudizio» in ordine al ricorso alla guerra come strumento della politica e che ha trasformato le celebrazioni di momenti della resistenza, come l'8 settembre a Roma, in
occasioni per l'apologia delle bande repubblichine, è evidente che tutto quest'ardore celebrativo nasconde un'operazione ideologica. Il rischio è quello di tornare alle origini e di trasformare nuovamente il 4 novembre in un momento di celebrazione della morte e di glorificazione della guerra: insomma una festa anti-ripudio della guerra. Il 4 novembre bisogna reagire alla fanfara suonata dal pifferaio La Russa, confrontandosi con la memoria storica e mettendo a nudo la falsità dei miti con i quali si è corrotta in passato e, oggi, si sta tentando di nuovo di corrompere la coscienza collettiva. Bisogna ricordare che quella guerra è uscita fuori da ogni schema razionale e che il progresso scientifico applicato all'arte della guerra ha trasformato il conflitto bellico in sterminio di massa e aperto la strada ai fascismi del XX secolo, a ulteriori barbarie e ad altri olocausti. Non si deve dimenticare, ma bisogna di nuovo fare lezione dalle tragedie del passato per evitare che si ripetano nel nostro futuro. La ricorrenza del 4 novembre deve essere utilizzata non per glorificare la guerra, come si accinge a fare il ministro La Russa, ma per celebrare la fine dell'orrendo massacro che ha insanguinato l'Europa e per riproporre l'impegno a salvare le generazioni future dal flagello della guerra che, nel secolo scorso, come recita il preambolo della Carta delle Nazioni Unite, per ben due volte, nel corso della stessa generazione ha causato sofferenze indicibili all'umanità.
Liberazione – 2.11.08
L'indifferenza arrogante del generale – Emilio Lussu*
Un brano dal libro/diario più bello e famoso
Il tenente generale comandante la divisione, ritenuto responsabile dell'abbandono ingiustificato di Monte Fior, fu silurato. In sua sostituzione, prese il comando della divisione, il tenente generale Leone. L'ordine del giorno del comandante di corpo d'armata, ce lo presentò «un soldato di provata fermezza e d'esperimentato ardimento».
Io lo incontrai la prima volta a Monte Spill, nei pressi del comando di battaglione. Il suo ufficiale d'ordinanza mi disse che egli era il nuovo comandante la divisione ed io mi presentai. Sull'attenti, io gli davo le novità del battaglione. - Stia comodo,- mi disse il generale in tono corretto e autoritario. - Dove ha fatto la guerra, finora? - Sempre con la brigata, sul Carso. - E' stato mai ferito? - No, signor generale. - Come, lei ha fatto tutta la guerra e non è stato mai ferito? Mai? - Mai, signor generale. A meno che non si vogliano considerare tali alcune ferite leggere che mi hanno permesso di curarmi al battaglione, senza entrare all'ospedale. - No, no, io parlo di ferite serie, di ferite gravi. - Mai, signor generale. - E' molto strano. Come lei mi spiega codesto fatto? - La regione precisa mi sfugge, signor generale, ma certo che io non sono stato mai ferito gravemente. - Ha preso lei parte a tutti i combattimenti della sua brigata? - A tutti. [...] - Molto strano. Per caso, sarebbe lei un timido? [...] - Credo di no, - risposi. - Lo crede o ne è sicuro? - In guerra, non si è sicuri di niente, - risposi io dolcemente. E soggiunsi, con una bozza di sorriso che voleva essere propiziatorio: - neppure di essere sicuri. Il generale non sorrise. Già, credo che per lui fosse impossibile sorridere.[...] - Ama lei la guerra? - Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v'erano ufficiali e soldati che sentivano. Mi decisi a rispondere. - Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia università rappresentavo il gruppo degli interventisti. - Questo, - disse il generale con tono terribilmente calmo, - riguarda il passato. Io le chiedo del presente. - La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se … è difficile … Comunque, io faccio il mio dovere -. E poiché mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: - tutto il mio dovere. - Io non le ho chiesto, - mi disse il generale, - se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati.
Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra. - Amare la guerra!- esclamai io, un po' scoraggiato. Il generale mi guardava fisso, inesorabile. Le pupille gli si erano fatte più grandi. Io ebbi l'impressione che gli girassero nell'orbita. - Non può rispondere?- incalzava il generale. - Ebbene, io ritengo …certo… mi pare di poter dire… di dover ritenere… Io cercavo una risposta possibile. - Che cosa ritiene lei, insomma? - Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di prediligere, in modo particolare, la guerra. - Si metta sull'attenti! Io ero già sull'attenti. - Ah, lei è per la pace? Ora, nella voce del generale v'erano sorpresa e sdegno. - Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all'alcova, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! E' così, signor tenente? - No, signor generale. -E quale pace desidera mai, lei? - Una pace… E l'ispirazione mi venne in aiuto. - Una pace vittoriosa. Il generale parve rassicurarsi. Mi rivolse ancora qualche domanda di servizio e mi pregò di accompagnarlo in linea. Quando fummo in trincea, nel punto più elevato e più vicino alle linee nemiche, in faccia a Monte Fior, mi chiese: - Quale distanza corre qui, fra le nostre trincee e quelle austriache? - Duecentocinquanta metri circa, - risposi. Il generale guardò a lungo e disse: - Qui, ci sono duecentotrenta metri.- E' probabile. - Non è probabile. E' certo. Noi avevamo costruito una trincea solida, con sassi e grandi zolle. I soldati la potevano percorrere, in piedi, senza esser visti. Le vedette osservavano e sparavano dalle feritoie, al coperto. Il generale guardò alle feritoie, ma non fu soddisfatto. Fece raccogliere un mucchio di sassi ai piedi del parapetto e vi montò sopra, il binocolo agli occhi. Così dritto, egli restava scoperto dal petto alla testa. - Signor generale, - dissi io, - gli austriaci hanno degli ottimi tiratori ed è pericoloso scoprirsi così. Il generale non mi rispose. Dritto, continuava a guardare con il binocolo. Dalle linee nemiche partirono due colpi di fucile. Le pallottole fischiarono attorno al generale. Egli rimase impassibile. Due altri colpi seguirono ai primi, e una palla sfiorò la trincea. Solo allora, composto e lento, egli discese. Io lo guardavo da vicino. Egli dimostrava un'indifferenza arrogante. Solo i suoi occhi giravano vertiginosamente. Sembravano le ruote di un'automobile in corsa. La vedetta, che era di servizio a qualche passo da noi, continuava a guardare la feritoia, e non si occupava del generale. Ma dei soldati e un caporale della 12° compagnia che era in linea, attratti dall'eccezionale spettacolo, s'erano fermati in crocchio nella trincea, a fianco del generale, e guardavano, più diffidenti che ammirati.[...] - Se non hai paura, - disse rivolto al caporale, - fa' quello che ha fatto il tuo generale. - Signor sì, - rispose il caporale. E, appoggiato il fucile alla trincea, montò sul mucchio di sassi. Istintivamente io presi il caporale per il braccio e l'obbligai a ridiscendere. - Gli austriaci, ora, sono avvertiti, - dissi io, - e non sbaglieranno certo il tiro. Il generale, con uno sguardo terribile, mi ricordò la distanza gerarchica che mi separava da lui. Io abbandonai il braccio del caporale e non dissi più una parola. [...] Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, traversandolo da parte a parte. Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi socchiusi, il respiro affannoso, mormorava: - Non è niente, signor tenente. Anche il generale si curvò. I soldati lo guardavano, con odio. - E' un eroe, - commentò il generale. - Un vero eroe.
*da "Un anno sull'altipiano"
La riscossa di Vittorio Veneto? E' una pura invenzione - Lorenzo Del Boca*
Nemmeno la storia della prima guerra mondiale ce l'hanno raccontata giusta. I libri di scuola stentano a mettere in evidenza che l'Italia di quel periodo si barcamenava fra coalizioni avversarie tentando di raccattare qualche utile, con il risultato di apparire un paese di piccoli imbrogli. Alla vigilia della dichiarazione di guerra, per un mese, si trovò alleata contemporaneamente con gli austro-ungarici e con i francesi e gli inglesi che già si massacravano sulle loro frontiere. Il nostro esercito le aveva prese anche da Menelik ed era del tutto evidente che non si trovava nelle condizioni di affrontare una guerra. Vittorio Emanuele III restava un re piccolo-piccolo cui avevano dovuto accorciare la sciabola perché non risultasse più lunga delle sue gambe corte. Chi percorre la selva di memoriali dell'epoca s'imbatte, a ogni passo, nella questione dei cappotti che non c'erano.
Mancavano i fucili; mancavano gli automezzi; mancavano i rifornimenti alimentari e non c'erano medicine. Ma, soprattutto, mancavano le idee. Di presunzione, gli ufficiali degli alti comandi ne disponevano in abbondanza e se fossero stati in grado di ottenere risultati proporzionali all'arroganza che esibivano avrebbero conquistato il pianeta. In realtà, riuscirono soltanto a trasformare le prime linee in un lager dove gli uomini ai loro ordini furono sottoposti a ogni genere di prevaricazioni anche psicologiche. I soldati potevano soltanto soffrire, dannarsi e morire. Al fronte ci mandarono vagonate di operai e contadini che non erano guerrieri e che la guerra non volevano. Per qualche settimana di addestramento, si trovarono con un bastone in mano. Poi gli misero in spalla un fucile vero che non avevano mai usato e li allinearono in faccia al nemico. Nemmeno i gironi infernali potevano essere più spaventosamente crudeli. Le prime linee erano delle catacombe a cielo aperto che si rincorrevano per centinaia di chilometri. In quelle tane, sparpagliate in un territorio sterminato, i soldati vissero quattro anni come gli uomini delle caverne. Tutti dentro, uno addosso all'altro - come nelle Malebolgie della Divina Commedia - diventando fisicamente insopportabili gli uni agli altri. Ammassati, in quei cunicoli artificiali, dove mangiavano e andavano al gabinetto, resistevano alla puzza che prendeva il cervello e si lasciavano vincere dalla nostalgia, tentavano di dormire quando era necessario risposare e si sforzavano di stare svegli quando montavano di guardia. C'era la guerra lì davanti ma occorreva combattere anche la fame e la sete, la pioggia e la melma, i topi e gli scarafaggi, le cimici e la dissenteria, la febbre e la cancrena che afferrava i piedi e saliva fino alle ginocchia. Il terrore, alla vigilia degli assalti, prendeva la gola. Tuttavia, la battaglia più faticosa si rivelò quella contro gli alti ufficiali che, più salivano di grado, più si comportavano come se avessero a che fare con dei servi della gleba. Per gli alti comandi tormentare quegli uomini in uniforme, con imposizioni vanamente disumane e colpevolmente inutili, sembrava diventato un dovere cui dedicare impegno ed energia.
Verrebbe da sostenere che il conflitto vero e proprio - contro gli austro-ungarici - sarebbe stato una passeggiata, se non ci fossero stati i generali italiani. I guai maggiori di chi combatteva per l'Italia vennero dagli stessi italiani. I comandanti si armarono di ordini assurdi. Pretesero di mandare le truppe all'assalto anche quando ogni logica l'avrebbe sconsigliato. Insistettero nello sfidare le leggi della fisica per fortificare posizioni insostenibili. Per ottenere un'obbedienza supina, fucilarono quelli che apparvero più riottosi o anche solo meno pronti a sacrificarsi. Instaurarono un regime di oppressione che sarebbe risultato odioso per una qualunque dittatura. E provocarono la morte di un numero imprecisato di loro uomini, piazzando le mitragliatrici dei carabinieri dietro le file destinate all'assalto, con la disposizione di aprire il fuoco alla schiena dei soldati, se avessero appena ritardato a lanciarsi fuori dalle trincee. Le corti marziali lavorarono a pieno ritmo e i magistrati, seduti sulle stufe arroventate dal fuoco per paura di prendersi un raffreddore, spedirono davanti al plotone di esecuzione una quantità di poveracci analfabeti che il fango delle trincee aveva mutilato. La giustizia del senno di poi avrebbe suggerito di fucilare direttamente il generalissimo Luigi Cadorna (comandante in capo all'inizio del conflitto) e di impiccare Pietro Badoglio: unica opportunità che l'Italia poteva giocarsi per evitare l'otto settembre 1943. La sconfitta di Caporetto fu un disastro che grida vendetta. Poteva essere evitato e si realizzò solo per il concorso determinante della dabbenaggine dei generali dello Stato Maggiore. Ignoranti con i gradi sulla giubba sacrificarono decine di migliaia di uomini e poi li marchiarono con l'accusa di essere stati dei vigliacchi. In questa occasione, come sempre nella storia tricolore, le polemiche si sprecarono ma restarono rigorosamente sigillate nei palazzi del potere. E alla fine - questa volta ma come sempre - non si riuscì a individuare un colpevole o qualcuno più responsabile degli altri. Anzi, si trovò il modo di premiare l'errore e di ricompensare lo sbaglio. Tornarono tutti a casa con le spalle incurvate dal peso delle medaglie. Invece di licenziarli e chiedere loro il risarcimento per i disastri commessi, preferirono promuoverli, aumentare loro lo stipendio e accettare che continuassero a far danni, in nome dei traguardi raggiunti. Anche la cosiddetta riscossa di Vittorio Veneto esiste soltanto sulla carta perché, in quella settimana del 1918, non ci fu nessun assalto e nessuno sfondamento. Gli italiani avanzarono perché gli austriaci si stavano ritirando: e gli austriaci si ritiravano perché era diventato inutile continuare una guerra che era irrimediabilmente perduta. Non a caso il comandante in capo di allora, Armando Diaz - informato di una travolgente avanzata italiana che, evidentemente, non aveva ordinato né che era a conoscenza si stesse sviluppando - tuffò la testa nella cartina geografica, alla ricerca del teatro della sua rivincita. E poiché faticava a individuare il luogo della battaglia, chiese soccorso agli uomini dello Stato Maggiore che gli stavano intorno: «Ma Vittorio Veneto ‘ndo cazzo stà…?»
*presidente dell'Ordine dei giornalisti
Ignoranza e falsi idoli sono consolidate armi di distrazione di massa
Francesco Gesualdi
Se il problema di La Russa fosse l'ignoranza, basterebbe mandargli una copia della lettera che il mio Priore e maestro, don Lorenzo Milani, scrisse ai cappellani militari nel lontano 1965, dalla piccola scuola di Barbiana.
Apprenderebbe, documenti alla mano, che la guerra del ‘15-18 fu un'aggressione all'Austria, una guerra che si poteva evitare:"Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti."
Una guerra di cui vergognarsi, da mantenere nei libri di storia solo per ricordare ai giovani fino a che punto può arrivare il disprezzo di classe: a morire negli assalti alla baionetta non erano gli ufficiali, figli della borghesia, ma i contadini, i montanari, gli analfabeti. Il guaio è che a La Russa non interessa né la storia, né la verità. L'unica cosa che gli interessa è il potere violento, la violenza, la forza, la repressione, come elemento che caratterizza il fascismo e che lo contraddistingue dalle altre forme di potere. Perchè i fascisti propendano per la violenza rimane un mistero, la materia è più da psicologici e psicanalisti, che da ricercatori politici. Ma così è, e se vogliamo capire perchè La Russa vuole tornare a commemorare il 4 novembre nelle scuole d'Italia è da qui che dobbiamo partire. Una richiesta che non va letta come fatto isolato, ma associata a molti altri provvedimenti di questo governo. Un filo rosso, anzi nero, collega la proposta di La Russa al decreto Gelmini e addirittura alle attività che Silvio Berlusconi porta avanti da una vita. Il filo nero si chiama demolizione della democrazia, un progetto che avanza su tre fronti: mantenimento della gente nell'ignoranza, controllo dell'informazione, distrazione e sostituzione del senso di classe. Da oltre trent'anni Berlusconi si dedica al secondo fronte, aveva capito che chi controlla l'informazione controlla non solo le menti, ma la stessa realtà: non è successo ciò che è avvenuto, è successo ciò che la televisione racconta. Così la televisione crea fatti, li distorce, li interpreta, di conseguenza produce opinione, confeziona giudizi, incanala i sentimenti, orienta le scelte, fabbrica eroi e nemici. Tutti sanno che Berlusconi ha vinto grazie alle sue televisioni ed è grave che nei periodi in cui il centrosinistra era al governo non abbia mai introdotto una riforma sul controllo televisivo, non abbia rivisto la legge elettorale, non abbia varato una legge sul conflitto d'interessi. Ed è stata punita. Il pensiero unico ha tanta più possibilità di attecchire quanto più la gente è senza strumenti culturali: nell'ignoranza la complessità spaventa, si rinuncia a capire, si ripiega verso l'informazione sbrigativa, ci si butta nelle braccia di chi ci dà spiegazioni semplici fino ad incoronarlo re. Il progetto autoritario perseguito da Berlusconi ha bisogno di ignoranza, un obiettivo che si ottiene impoverendo la scuola. A questo serve il decreto Gelmini, a declassare così tanto la scuola pubblica da farla diventare parcheggio dei poveri mentre i ricchi fuggono verso le scuole private. Il solito apartheid, che ai figli dei ricchi riserva tempo pieno, classi poco numerose e insegnanti multipli fin dalla materna; ai figli dei poveri orario ridotto, aule sovraffollate, insegnanti insufficienti che al colmo della disperazione rinunciano al ruolo educativo e si trasformano in sorveglianti che annotano sul registro i buoni e cattivi. Ma anche i poveri ignoranti, quando pagano di persona, possono avere un moto di ribellione e possono farsi pericolosi, per questo servono i depistatori, gli addetti alla distrazione di massa che si possono suddividere in due categorie: i fabbricanti di streghe e i fabbricanti di feticci. Ai giorni nostri, il capostipite del primo genere è la Lega Nord che getta la responsabilità di tutti i malanni d'Italia sugli immigrati, la vecchia tattica di incanalare la rabbia verso i più deboli, additandoli come brutti, sporchi, delinquenti e accattoni, mentre i veri ladri se la spassano con la complicità della classe politica: imprenditori, banchieri, assicuratori, palazzinari, mafiosi, che si arricchiscono all'inverosimile grazie alla precarietà del lavoro, alle truffe alle spalle dei risparmiatori, all'evasione fiscale, alla speculazione finanziaria, alla corruzione di stato. Del resto l'operazione non è difficile, fa leva su due paure ataviche. La prima verso la povertà, la miseria: ne abbiamo così tanta paura che cerchiamo di esorcizzarla escludendo ed odiando chi la impersonifica. La seconda verso lo straniero, la cultura fascista ci ha abituati a concepirlo come il nemico e non c'è da stupirsene: non c'è capro espiatorio più comodo di un popolo lontano che la propaganda può dipingere al pari di un diavolo. Così arriviamo all'altra grande operazione di distrazione di massa, la costruzione di idoli, feticci, che hanno lo scopo di camuffare la realtà, distogliere l'attenzione dalle ingiustizie che viviamo. Ed ecco la messa in campo del concetto di patria, il tentativo maldestro di nascondere le divisioni di classe sotto una malcelata unità territoriale minacciata dall'inimicizia dello straniero. Con la sua mossa sulla prima guerra mondiale, La Russa punta a rinfocolare feticci fascisti caduti in disuso. Forse avrebbe preferito farlo evocando una vittoria più moderna, ma la guerra in Afghanistan si prospetta ancora lunga e dagli esiti incerti. In mancanza di meglio va bene anche un'anticaglia di un secolo fa, quantunque debba vedersela con la Lega Nord, suo alleato, che sui confini di patria ha altre idee.
Per parte mi rifaccio ad un altro passaggio della lettera scritta da don Lorenzo Milani ai cappellani militari: "Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri".

Lunedì, 3 Novembre, 2008 - 17:16

Trattoria Musicale del Circolo ArciCorvetto

Giovedì 6.11 alla Trattoria Musicale del Circolo ArciCorvetto
alla Trattoria Musicale del Circolo ArciCorvetto
Introduce la serata
IL TRIO
Davide Logiri (piano)- Stefano Scopece (Contrabbasso)- Paolo Traino (batteria)
seguirà una
JAM SESSION
Aperta a tutti i musicisti
Per cena: ARROSTO ALLA ROMANA CON PATATE AL FORNO
L’ingresso mangiando è al solito 10 euro (se potete, mandateci una mail per prenotare, possibilmente in anticipo, martedì/mercoledì).
il solo ingresso 3 euro (ovviamente, in entrambi i casi, con tessera arci).
VI ASPETTIAMO!
Circolo Arci Corvetto, Via Oglio 21, MM Brenta - Milano
Circolo Arci Corvetto, Via Oglio 21, MM Brenta - Milano

Lunedì, 3 Novembre, 2008 - 17:04

Se non ora quando? Aggiornamento adesioni appello

Se non ora quando?
Appello della Lista Uniti con Dario Fo per Milano
per una Commissione d'inchiesta sul fenomeno della corruzione e della mafia nel territorio milanese

A Milano la mafia esiste. I fatti dimostrano che nella "capitale finanziaria" la corruzione persiste in modo invasivo. Vincenzo Macrì, componente della Direzione Nazionale Antimafia, assicura che "Milano è la vera capitale della "ndrangheta". Si parla anche di mafia, camorra, sacra corona unita. A testimoniarlo sono fatti giuridicamente sottoposti a procedimenti penali ancora in corso. Politica ed economia intessono relazioni pericolose con esponenti delle cosche.
Diversi sono stati gli omicidi di stampo mafioso commessi negli ultimi mesi, ricordiamo per ultimo Cataldo Aloisio, 34 anni, freddato nel Nord Ovest di Milano da un colpo di pistola alla nuca.
Come spiega Gianni Barbacetto, un potere non più occulto si è insediato nella città e come una idra multitentacolare tende a pervaderne il tessuto sociale, economico e politico.
L'emergenza in città viene indirizzata verso i Rom, oppure verso i furti e le rapine che sono in netto calo negli ultimi anni: il resto non sussiste. Non si comprende che spesso la microcriminalità esiste perché esiste la macrocriminalità delle organizzazioni mafiose.
La mafia a Milano, come scrive nel suo libro Giampiero Rossi, permane ormai da tempo in diversi settori: dai piccoli spacciatori sulla strada ai consulenti finanziari, ai commercialisti, ai direttori di banca negli uffici "ovattati" del centro cittadino, capitale del "business".
La macrocriminalità ricicla il denaro che gli viene fornito da una certa finanza bancaria e di borsa che, pur non essendo organica alla "cosca", rimane complice di un sistema di corruzione e di inquinamento della libera concorrenza.
La mafia è un problema culturale, asserisce Giovanni Impastato, fratello di Peppino. E anche nel Nord la cultura dominante è quella dell'illegalità.

Occorre creare una Commissione di controllo sugli appalti dell'EXPO, una commissione speciale d'inchiesta sugli interessi mafiosi attivi nel territorio cittadino: la proposta giace in Consiglio Comunale, nonostante l'apprezzamento trasversale che ha ottenuto.
La società civile, l'associazionismo per la legalità, Don Gino Rigoldi, Libera, intellettuali e uomini di cultura hanno più volte avanzato la proposta, anche precedentemente all'assegnazione dell'EXPO a Milano. Ma l'amministrazione è sempre apparsa sorda di fronte a una richiesta corale di fare fronte all'emergenza dell' illegalità mafiosa, corrosiva della convivenza civile e sociale della nostra città.
Occorre subito attivare ogni forma utile a riportare a Milano la cultura della legalità, che è cultura di democrazia, giustizia sociale ed eguaglianza.

Ti chiediamo di aderire a questo appello che alcune cittadine e cittadini indirizzano all'Amministrazione Comunale affinché si chieda subito e si approvi una Commissione d'Inchiesta sul fenomeno della corruzione e della mafia a Milano, coerentemente con quanto sostenuto da più relatori nell'incontro in memoria di Peppino Impastato, tenutosi proprio a Palazzo Marino il 16 settembre 08.

Invia la tua adesione all'indirizzo listafoappello@gmail.com scrivendo:
aderisco all'appello " Se non ora quando? Appello per una Commissione d'inchiesta sul fenomeno della corruzione e della mafia nel territorio milanese da inviare all'Amministrazione Comunale di Milano".

Adesioni finora pervenute
Basilio Rizzo, Vittorio Agnoletto, Nando dalla Chiesa, Luciano Muhlbauer, Francesca Zajczyk, Alessandro Rizzo, Paolo Cagna Ninchi, Giuseppe Natale, Amalia Navoni, Antonella Fachin, Franco Brughiera, Raffaele Taddeo, Sergio Segio, Tommaso Zampagni, Thomas Schmid, Marco Bersani, Paolo Azioni, Vanni Mirandola, Nello Vescovi, Liborio Francesco Cozzoli, Luisa Spinoso, Renata Sparacio, Francesco Pedrazzi, Giulio Cengia, Guido Gavazzi, Maria Carla Baroni, Alessandro Cangemi, Anna Alziati, Angelo Valdameri, Vincenzo Viola, Rossana Campisi, Fabrizio Casavola, Francesca Mileto Fausto Marchesi, Aligi Maschera, Christian Elevati, Loredana Fantini, Roberto Brambilla, Rolando Mastrodonato, Valerio Imbatti, Aldo Rossetti, Luigi Candreva, Alessandro Guido, Eleonora De Bernardi, Cristina Agosti, Piero Basso, Enrica Torretta, Roberto Cagnoli, Ida Alessandroni, Giampaolo Ferrandini, Ersilia Monti, Stefano Panigada, Giacomo Sicurello, Mirella De Gregorio, Luigi Campolo, Empirio Vito, Emanuele Gabardi, Vincenzo Vasciaveo, Edda Boletti, Saverio Benedetti, Silvano Pasquini, Fabio Ricardi, Camillo Gama Malcher, Cristina Benato, Edgardo Bernasconi, Claudio Armellini, Silvia Biassoni, Pietro Zanisi, Emanuele Concadoro, Mariateresa Lardera, Grazia Casagrande, Simona Platè, Gabriella Benedetti, Enzo Bensi, Massimo Gentili, Stefania Cappelletti, Mercedes Mas, Davide Frigerio, Giovanni Amico, Giogo Nobili, Rosanna Gatti, Andrea Sanclemente, Gabriella Grasso, Paolo Meyer, Giuliana Nichelini, Silvio Agnello, Luca Ariano, Marco Alberti, Claudia Giella, Ibrahîm 'Abd an-Nûr Gabriele Iungo, Gregorio Mantella, Sergio Marinoni, Anna Pedrazzi, Simone Panozzo, Michele Sacerdoti, Luigi Ranzani, Tommaso Botta, Mona Mohamed, Tommaso Dilauro, Maurilio Pogliani, Franco La Spina, Paolo Baruffa, Eliana Scarafaggi, Maurilio Grassi, Pennu, Roberto Prina, Donatela Cabrini, Giulio Cavazioni, Claudia Guastaldi Musso, Biagio Strocchia, Aldo Sachero, Donfrengo, Miriam Garavaglia, Marco Fassino, Luciano Luca Pasetti, Ferdinando Lenoci, Fabio di Falco, Lidia Meriggi, Ennio Riva, Carmen Cavazzoli, Renato Mele, Nadia Barbetti, Teresa Isenburg, Paolo Migliavacca, Monica Rossi, Giancarlo Roncato, Marina Lagori, Mario Bonica, Camilla Notarbartolo, Luisa A. Meldolesi, Bianca Dacomo Annoni, Renato Vallini, Tiziana Marsico, Daniele Gaggianesi, Ester Prestini, Salvatore Fraticelli, Alessandra Durante, Anna Maria Osnaghi, Rino Messina, Mattea Avello, Daniele Leoni, Angela Persici, Ruggero Bogani, Laura Bogani, Armando Costantino, Bruno Giulio, Antonio Lupo, Amanda e Silvio, Vincenzo Modarelli, Cristina Simonini, Alessandra Manzoni, Giuliana De Carli, Renato Merlini, Maria Luisa Sciarra, Federico Marchini, Luciana P. Pellegreffi, Alda Capoferri, Stefania Fuso Nerini, Riccardo Poggi, Maria Rosa Strocchi, Luisa Motta, Giovanna Groppi, Renato Lana, Massimo De Giuli, Guido Bolzani, Tony Rusconi, Romano Miglioli, Guia Faglia, Liborio Francesco Cozzoli, Silvia Olivotti, Ermanno de Gregorio, Annamaria Trebo, Lino de Gregorio, Tina Fusar Poli, Marina Querciagrossa, Giuliana Zoppis, Melissa Corbidge, Emanuela Nava, Davide Radaelli, Paolo Zani, Siliana Silvia Inguaggiato, Ernesto Pedrini, Marisa Gaggini, Giorgio Boccalari, Carla Gnecchi Ruscone, Luca Trada, Francesco Paolella, Edvige Cambiaghi, Carlo Rossi, Adele Rossi, Daniela Rossi, Roberto Zuccolin, Paola Iubatti, Marina Gorla, Pasquale Palena, Paolo Limonta, Elena Tagliaferri, Stefano Levi Della Torre, Marco Tatò, Edoardo Bottini, Davide Pelanda, Simona Bessone, Antonio Frascone, Renata Rambaldi, Tatiana Cazzaniga, Cristina Franceschi, Nicoletta Lucatelli, Francesca Carmi, Federico Mininni, Jacopo Casadei, Sandro Artioli, Carla Dentella, Alessandro Zanardi, Giovanna Ronco, Giovanni Acquati, Franco Calamida, Giuseppina Renzetti, Alfredo Minichini, Patrizia Tovazzi, Roberto Capucciati, Piercarlo Collini, Stefano Costa, Davide Sini, Paola Trotta, Antonio de Cristofaro, Andrea Fedeli, Alberto Risi, Annamaria Palo, Luigia Pasi, Brunella Panici, Vincenzo di Giacomo, Bianca Avigo, Marco Gimmelli
Lunedì, 3 Novembre, 2008 - 14:59

ROGO DI OPERA: CASSAZIONE ANNULLA ASSOLUZIONE DEL SINDACO FUSCO

ROGO DI OPERA: CASSAZIONE ANNULLA ASSOLUZIONE DEL SINDACO ETTORE FUSCO
di lucmu (del 03/11/2008)
Vi ricordate del rogo di Opera? Era la vigilia di Natale del 2006 e un nutrito gruppo di cittadini operesi, guidato e incitato dal leghista Ettore Fusco e da altri esponenti della Lega e di An, aveva dato alle fiamme le tende della protezione civile, destinate ad ospitare fino a primavera le famiglie rom precedentemente sgomberati dalle baracche di via Ripamonti, nel comune di Milano. Le tende sarebbero poi state rimontate, ma l’assedio, con tanto di insulti e minacce quotidiane, continuò fino all’inizio di febbraio, quando i rom e la Casa della Carità gettarono la spugna e se ne andarono.
Opera fu una sconfitta per la democrazia e la decenza e una vittoria politica per le destre e gli xenofobi. Anzi, fu una sorta di fatto costituente, destinato a fare scuola. Da allora in poi si registrò un crescendo di azioni simili, un po’ dappertutto in Lombardia e successivamente anche oltre. E uno dei principali protagonisti della vicenda capitalizzò la vittoria fino in fondo: nell’aprile del 2008 Ettore Fusco è stato eletto Sindaco di Opera.
Aver permesso a Lega e An -con qualche occasionale appoggio operativo di militanti neofascisti- di averla vinta, significò sdoganare e legittimare azioni razziste e violente contro i rom. Lo stesso comportamento delle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico fu allora arrendevole, per usare un eufemismo. In sostanza rimasero a guardare. E la medesima tolleranza sarebbe poi stata usata anche dal magistrato, che infatti nel febbraio scorso assolse Ettore Fusco dall’accusa di “istigazione a delinquere”.
Sembrava tutto chiuso, finito, nel peggior modo possibile. Cioè, a Opera non era successo nulla, non ci sono responsabilità, né colpevoli. O meglio, gli unici colpevoli sono quelli che la violenza non l’hanno mai usata: le famiglie rom, prima sgomberati dalla baraccopoli milanese, poi assediati, minacciati e cacciati da Opera.
Invece no, la vicenda non è ancora chiusa. Infatti, venerdì 31 ottobre la Corte di Cassazione ha depositato la sentenza con la quale accoglie il ricorso della Procura di Milano, annullando l’assoluzione e disponendo un nuovo processo per “istigazione a delinquere” contro il Sindaco di Opera, Ettore Fusco.
Una buona notizia, comunque vada a finire, perché vuol dire che è rimasto ancora qualcuno che ritiene i roghi razzisti contro persone indifese, con l’unico fine di garantire un tornaconto politico e personale a qualcuno, non compatibili con lo stato di diritto e la democrazia.

Luciano Muhlbauer
Consigliere Regionale PRC
www.lucianomuhlbauer.it

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