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Venerdì, 21 Gennaio, 2011 - 17:31

"Ho visto Zingari e Italiani insieme felici": lunedì 24 gennaio 2010, ore 21.15

Carissimi/e,

lunedì 24 gennaio p.v. alle ore 21.15 in via Porpora 45, presso la casa della sinistra, si terrà il primo incontro del breve ciclo

"Ho visto Zingari e Italiani insieme felici" un percorso di conoscenza
per una convivenza possibile
Rom e Sinti:
attraverso
la STORIA:
lunedi 24 gennaio 2011 -ore 21:15
presso la Casa della Sinistra –Via Porpora 45, Milano
Conferenza del Prof. P. Finzi: giornalista, saggista e politologo
“A FORZA DI ESSERE VENTO: lo sterminio nazista dei Rom e dei Sinti”
la CULTURA:
lunedi 21 febbraio 2011 -ore 21:15
presso la Casa della Sinistra –Via Porpora 45, Milano
Conferenza dei
Prof. A. Alietti: docente di Sociologia Urbana e di Comunità, Università di Ferrara
Prof. M. Pagani: studioso e presidente dell’Opera Nomadi di Milano
“Origine, organizzazione e politiche possibili delle società Rom e Sinti”
l’ARTE:
domenica 13 marzo 2011 -ore 15:00
presso il parco Trotter, Viale Padova 69, Milano
Concerto di musica Rom con il gruppo “I MUZIKANTI”
Lunedì, 26 Luglio, 2010 - 22:51

UNITÀ D’ITALIA. LA MORATTI PERDE TRE A ZERO

Da Arcipelago Milano di oggi 26 luglio 2010.

Cordiali saluti a tutte/i
Antonella Fachin
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UNITÀ D’ITALIA. LA MORATTI PERDE TRE A ZERO

26-7-2010 by LBG 

 

Il Comune di Milano si muove con poco entusiasmo verso la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: tre piccole serate di musica al Museo del Risorgimento promosse dall’ineffabile assessore alla cultura Massimiliano Finazzer Flory.Poi si vedrà, a condizione di non urtare troppo la sensibilità della Lega che su questo tema fa di tutto per prendere le distanze: per lei l’Unità d’Italia è una specie di oltraggio alla fiera razza padana, indifferente però al fatto di essersi stabilmente insediata a Roma – capitale d’Italia – a sorreggere le vacillanti sorti del governo Berlusconi. Ma chi arriverà in pole position alla fatidica data del 18 febbraio 2011, a centocinquanta anni dalla prima riunione del Parlamento dell’Italia unita?
La Moratti ormai la gara l’ha persa e i veri simboli dell’Unità d’Italia li conosciamo tutti e sono tre: mafia, camorra e ‘ndrangheta. Mentre lei, in compagnia del prefetto e di altre anime candide negava l’evidenza, la criminalità organizzata si è impossessata dell’intero Paese: una vera conquista partendo dal sud, la nuova questione meridionale. Chi è più colpevole? Chi era distratto? Chi magari ci ha messo del suo? E pensare che all’origine del tutto probabilmente ci sono quegli sciagurati domicili coatti ai quali la magistratura meridionale ha condannato molti mafiosi, pensando forse che la società del nord, per definizione allora sana, avrebbe impedito il propagarsi della malattia. Così non è stato.
La società del nord, quella lombarda in particolare, si è mostrata molto permeabile anche se non sono del tutto chiare le ragioni di tanta debolezza. Al fondo di tutto, in tempi abbastanza recenti, l’amore e l’attaccamento lombardi e milanesi al lavoro si sono tramutati in desiderio puro di denaro, non come premio e riconoscimento della propria laboriosità in maniera un po’ calvinista ma come puro status simbol. Dunque anche le scorciatoie per arrivarci sono diventate attraenti. Non passa giorno senza che i giornali ci informino che la malavita si è impossessata di ristoranti, aziende, fattorie agricole; non passa giorno che qualcuno non lamenti che il mondo della finanza è diventato il loro regno; non passa giorno che si scoprano nuove bande di estorsori in allegra combutta con la gente del posto: le cronache non parlano solo di nomi d’origine calabrese, siciliana o giù di lì ma troviamo anche i Brambilla. Ormai in certi ambienti ci si augura di trovare un Mangano da ospitare nelle proprie scuderie e ci si guarda attorno.
Che cosa è venuto a mancare? E’ il crollo delle ideologie? Non facciamo ridere, è mancato solo il buon esempio e sono proliferati i cattivi esempi seguendo il vecchio adagio che il pesce puzza dalla testa. Personalmente devo dire che rimpiango i tempi della Balena bianca, quando come altrettanti sepolcri imbiancati molti politici non facevano nulla di diverso da quello che alcuni loro eredi fanno ora, ma sulle piazze e nella vecchia televisione in bianco e nero, in giacca e cravatta, predicavano bene, invitavano all’onestà e alla parsimonia, al rispetto per gli altri e all’amore del prossimo. Oggi ne fanno di tutti i colori e se ne vantano, e se proprio non è possibile vantarsene non se ne vergognano. Viva l’ipocrisia! Fa meno danni.

 

Luca Beltrami Gadola

Mercoledì, 26 Maggio, 2010 - 09:21

REFRESH: APPELLO DELL'ISTITUTO PEDAGOGICO DELLA RESISTENZA: firmiamolo tutti/e!

Carissimi/e,

vi ricordo la necessità di sottoscrivere l'appello affinché un istituto che sta tenendo viva la memoria storica della resistenza non sia chiuso.
Quindi vi invito a entrare nel mio precedente blog: cliccate qui e avrete tutti i riferimenti.
Con l'occasione ringrazio Roberto ed Enrico delle loro testimonianze umane, che sono più significative di tante mie parole.
Cordiali saluti
Antonella Fachin

Sabato, 22 Maggio, 2010 - 18:51

Questa non è l’Italia che i Partigiani sognavano.

Questa non è l’Italia che i Partigiani sognavano.
 
La situazione in Italia, in quest’ultimo periodo, è sempre più complicata, sembrerebbe che la metropoli Milanese e quella Romana, stiano tracciando una strada per un completo rientro nella “norma” di fascisti e razzisti, si susseguono raduni, manifestazioni, eventi, dove i simboli e i saluti romani si sprecano, il tutto con l’appoggio di forze politiche e dei loro rappresentanti che si mostrano forza trainante e di pressione anche verso le Istituzioni, che dimenticando il loro ruolo di garanti della democrazia partecipano, concedendo patrocini ed aiuti.
Complicati esercizi di trasformismo, un giorno con le regole della Costituzione, con i valori e i riconoscimenti alla Resistenza alla Liberazione, ed il giorno dopo con l’adesione e spesso con la sotterranea convivenza con movimenti, persone, ideali che ripropongono razzismo, fascismo, nazismo, xenofobia.. Il tutto dunque come normalità, accettata come un semplice gioco politico e poi.. suvvia una telecamera, un articolo sul giornale non lo si nega a nessuno…  La storia è di nuovo stravolta,  verità confuse, distorte, una palude di revisioni, negazioni, falsità che tutto intorpidiscono, annebbiano… E di nuovo l’ANPI è al centro del ciclone, strattonata, denigrata, accusata di colpe, posizioni, indicazioni… La storia si ripete, ancora una volta soli, Partigiani ed antifascisti, accusati di tutti i mali che la brutta politica Italiana, getta quotidianamente sul tavolo della comunicazione.
E noi… NO,non ci stiamo.
Non ci stiamo, con Istituzioni trasformiste, che ci accusano di fomentare estremismi, e di non rappresentare più nessuno, non ci stiamo a “litigare” con movimenti giovanili che ci urlano di immobilismo. Non ci stiamo a chi ci indica solo come portatori di demagogia,  Non ci stiamo a chi ci accusa di convivenze, e di essere fuori dalla vita politica e sociale di questa “nuova” Italia.
Eppure basterebbe così poco per capirci, un libro di storia, di quelli veri e sinceri… una chiacchiera con un Partigiano, un giro per le vie delle città, per i sentieri di montagna, leggendo nomi e date su lapidi e cippi…  e magari anche informandosi senza preconcetti, su cosa è l’ANPI, su cosa fa l’ANPI, in questo sempre più completo mondo  virtuale della rete Internet, o meglio ancora nel mondo reale delle sezioni ANPI che in tutta Italia, lavorano, propongono, elaborano, discutono, di donne e uomini, che da sempre senza alcun compenso ne economico, ne di carriera politica, ne di voler apparire a tutti i costi, continuano imperterriti a credere in un “mondo migliore” dove ancora una volta le parole, Libertà, Eguaglianza, Diritti, sono radici di un pensiero, dove ancora ideali ed esempi concreti, aiutano a costruire comportamenti e regole, dove ancora la nostra Costituzione è carta viva e attuale per indicare strade e ragionamenti…
Noi dell’ANPI ci siamo… non ci tiriamo indietro, siamo da sempre disposti ad offrire tutto il possibile, e la nostra storia anche quella degli anni del dopoguerra, ci vede spesso e purtroppo da soli a ragionare, confrontarci, lavorare… non temiamo dunque le critiche, le accuse, rispondiamo con il sacrificio supremo di centomila morti, che ha permesso anche a chi ci denigra ed accusa di poter esprimere liberamente il loro triste  e confuso pensiero..
Denunciamo ancora una volta chi appoggia il fascismo, ricordiamo che esistono leggi d’applicare contro chi ne fa ancora uso e pratica, chiediamo ad Istituzioni e garanti il rispetto di tali leggi e dunque limpidi e certi comportamenti.
Denunciamo l’uso distorto della storia, per fini che nulla hanno a che fare con il nostro pensiero, i nostri ideali. Denunciamo i comportamenti ostili di chi ci pensa “vecchi” e incompetenti per gestire ancora una parola che ricordo è nata con noi, noi non siamo antifascisti. Noi siamo l’ANTIFASCISMO.
Chiediamo ai vertici della nostra associazione di rendere reale la nuova stagione dell’ANPI, di non attendere oltre, d’evitare immobilismi e ragionamenti , di confrontarsi senza fraintendimenti con tutti soprattutto con i giovani che sono tanti, oggi, che chiedono la nostra tessera, chiedono immediate risposte, chiedono suggerimenti ed indirizzi senza la solita logica del “partito” ma con la semplicità di rapportarsi alla pari, con voglia di continuare a seminare semi per far crescere fiori..  Dimostriamo con i fatti, evitiamo il tutto ci è dovuto…  scaliamo di nuovo ripide montagne, cantiamo ancora “fischia il vento”.
Noi ci siamo…. 
Noi continueremo, sempre a lottare, scendere in piazza, manifestare, applicando le regole della democrazia, noi sempre ci saremo, tutti insieme, continueremo senza alcun timore e remore a costruire sulle fondamenta della nostra Repubblica, La Resistenza, è per noi stimolo sempre attuale.  Per chi pensa il contrario, per chi pensa l’inutilità, per chi attualizza falsità,  per chi pensa solo all’odio…  un suggerimento, venite a conoscerci.!
“A coloro che non vogliono più saperne della Resistenza perché in Italia le cose non vanno come dovrebbero andare, c’è da rispondere che la nostra non sempre lieta situazione presente non dipende da una ragione soltanto: che non abbiamo ancora appreso tutta intera la lezione della libertà. E siccome l’inizio di questo nuovo corso della libertà e stata la Resistenza, si dovrà concludere che i nostri malanni, se ve ne sono, non dipendono già dal fatto che la Resistenza sia fallita, ma dal fatto che non l’abbiamo ancora pienamente realizzata.”  -  (Norberto Bobbio).
 
ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA
Sezione Barona. Milano.
  
Adesioni:
 
ANPI sezione Lambrate Ortica.
ANPI sezione Corsico.
ANPI sezione Monza.
ANPI Monza & Brianza.
ANPI sezione Precotto.
ANPI sezione Voghera.
ANPI sezione Quarto Oggiaro.
ANPI sezione Sempione Certosa.
ANPI sezione Lainate.
ANPI Zavattarello.

Martedì, 4 Maggio, 2010 - 09:20

Come uccidere il 25 aprile a Milano

Dal notiziario ARCIPELAGO,
COME UCCIDERE IL 25 APRILE

3-5-2010 by LBG 
Passato il Primo maggio e le sue celebrazioni possiamo tornare a parlare del 25 aprile e di come uccidere questa ricorrenza; Milano, come il solito, si è distinta. Cominciamo dall’organizzazione della manifestazione e dal suo palcoscenico: piazza del Duomo, la piazza di Milano. Non possiamo pretendere che qui si allestisca qualcosa che anche solo da lontano somigli al concerto in Piazza San Giovanni a Roma, là si trattava di una festa, qui di una celebrazione, ma quello che come tutti gli anni fa il comune di Milano è al di sotto dell’immaginabile.
A ridosso del monumento a Vittorio Emanuele II, col fronte rivolto al Duomo, abbiamo visto la solita pedana – chiamarlo palco non è il caso – di un paio di metri più alta della piazza, circondata da transenne per far spazio ai gonfaloni e per misura di sicurezza. Sulla pedana un affollarsi di facce note e meno note in preda ad una specie di nevrosi da posizionamento – solo chi è al bordo si nota – a far da corona a un oratore che, a meno non fosse – e nessuno lo era – un gigante della specie, non si distingueva dagli altri. Il sistema di amplificazione, non dei migliori, non riusciva a coprire il rumoreggiare della folla e, per chi aveva l’orecchio fino, arrivava a stento ai margini della piazza. Allora che il Comune di Milano si faccia l’esame di coscienza: possibile che non si possa fare nulla di meglio?
Possibile che l’ultimo dei concerti che martirizzano e spesso vandalizzano la piazza si meriti un palcoscenico migliore della manifestazione del 25 aprile? Possibile che non si riesca a erigere qualcosa di più di una pedana rialzata, magari non con lo sfarzo della sfilata del 2 giugno a Roma ma qualcosa che gli somigli? Non ci vuole troppa fantasia per pensare a un palco coperto – niente sole a dardeggiare sulle rade canizie e niente pioggia quando capitasse – qualche fila di seggiole a gradinata per accogliere le autorità e un piccolo leggio con l’immancabile acqua per l’oratore e alle spalle un ormai consueto schermo gigante che consenta anche a chi è lontano di vedere in volto l’oratore e, per finire, il palco per la banda cittadina che con l’inno nazionale deve ricordarci molte cose assieme. Domandiamo troppo? Che nessuno parli per cortesia delle ristrettezze del bilancio comunale, niente beffe.
Ma perché lo domandiamo? Non certo per un vano amore dei fasti o delle sfilate da piazza Rossa ma perché devono esistere il decoro e la dignità delle istituzioni, per rispetto di se stesse e per rispetto dello spirito delle celebrazioni. Solo così si può cercare di emarginare chi aspetta queste occasioni come date sicure per un agguato che di politico ormai non ha quasi più nulla ed evitare i fischi degli intolleranti. C’è poi un’altra considerazione da fare, ed è il confronto della comunicazione. Oggi, nel bene e nel male, il pubblico si è abituato a un modo di comunicare con una componente spettacolare che quasi travolge il senso stesso della circostanza: non possiamo dimenticarlo né tirarci indietro. Un’ultima considerazione: gli oratori e le orazioni. Sono due aspetti della manifestazione che vanno assieme. Oltre agli oratori istituzionali – del contenuto dei loro discorsi parleremo in seguito – ci sono gli oratori occasionali come i pochi superstiti della Resistenza o dei campi di sterminio; non sono oratori abituati al pubblico ma sempre testimonianze fisiche: non basta sentire la loro voce, bisogna vederne i volti, bisogna vedervi passare le ombre della commozione e del ricordo, bisogna che mostrino ai giovani se stessi. Tra qualche anno di loro non avremo più nessuno in mezzo a noi ma a quel momento sarà giusto vedere il volto dei giovani, sempre più numerosi, che hanno accettato il testimone in questa staffetta della memoria.
Ecco perché ci vogliono i grandi schermi: nemmeno un attore professionista ormai riesce a trasmetterci il patos di quel che dice con la sola voce, ne abbiamo perso la capacità. Quanto al contenuto delle orazioni ufficiali anche qui dobbiamo dire qualcosa: è difficile saperle fare senza scadere nelle cosiddette parole di circostanza o deviare sui problemi politici del momento del tutto a sproposito. C’è un recinto entro il quale si può stare, un recinto largo che dà spazio a tutti: parlare di quello che è rimasto dentro di noi, se è rimasto e perché. Nell’intervista a questo giornale concessa da Oscar Luigi Scalfaro ci ha detto che il 25 aprile e i suoi valori li possiamo testimoniare tutti i giorni con il nostro comportamento. Anche questo è nel recinto.
Luca Beltrami Gadola

Venerdì, 23 Aprile, 2010 - 11:31

in vista del 25 aprile: FESTA DELLA LIBERAZIONE DAL NAZIFASCISMO

Siamo a qualche giorno dal 25 Aprile... ricordiamo il pensiero illuminante di Piero CALAMANDREI:
"Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione,
andate nelle montagne dove caddero i Partigiani,
nelle carceri dove furono imprigionati,
nei campi dove furono impiccati.

Dovunque è morto un italiano per riscattare la Libertà e la Dignità,
andate lì o giovani, col pensiero…

perché li è nata la nostra COSTITUZIONE".
Cordiali saluti a tutte/i
Antonella Fachin
Consigliera di Zona 3
Capogruppo Uniti con Dario Fo per Milano
Facebook: Antonella Fachin
Lunedì, 19 Aprile, 2010 - 11:24

25 aprile: resistenza della INNSE ieri e oggi

Per opportuna informazione e partecipazione.
Cari saluti
Antonella Fachin
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25 aprile 2010
 
Questo anno la commemorazione degli operai e degli impiegati deportati dai nazifascisti nei campi di concentramento nel 1943 assume un significato particolare.
Come tutti sapete la INNSE è stata teatro di un lungo, accanito braccio di ferro fra padroni speculatori che volevano chiudere la fabbrica e gli operai che si sono opposti con tutti i mezzi per impedirlo.
Alla fine la resistenza degli operai ha vinto. La fabbrica è stata rimessa in moto con un nuovo padrone e noi a fare ancora gli operai ma con una rinnovata, antica determinazione: resistere alle ingiustizie, alla prepotenza, alla miseria dei licenziamenti non solo è possibile ma soprattutto è necessario.
In questo senso ci sentiamo legati idealmente agli operai ed agli impiegati di questa fabbrica che resistettero al nazifascismo e per questa scelta pagarono con la vita, più di cinquanta anni fa.
La resistenza della INNSE di oggi è stata possibile grazie al sostegno di tanti altri operai, studenti, pensionati e vogliamo siano ancora al nostro fianco in questa commemorazione, per questo invitiamo tutti a partecipare all’iniziativa che si svolgerà il giorno 23 Aprile alle ore 15.
L’appuntamento è davanti alla portineria di Via Rubattino, 81.
 
 
La RSU della INNSE                                                                                    Milano 15 aprile 2010

Venerdì, 10 Luglio, 2009 - 11:59

Il nemico della stampa... e della nostra democrazia

Per riflettere … e diffondere.
(le evidenziazioni in neretto sono mie).
Saluti
Antonella
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Il nemico della stampa
Umberto Eco, L' espresso, 09-07-2009

Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.
Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. 
Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?
Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).
E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio – la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa – che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.
Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?
Già, perché farlo? Il perché è molto semplice.
Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. 
Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto.

Venerdì, 24 Aprile, 2009 - 22:15

LA LISTA UNITI CON DARIO FO SARA' IN PIAZZA PER LA LIBERAZIONE

25 APRILE: FESTA DI APRILE, FESTA DI LIBERTA'
LA LISTA UNITI CON DARIO FO SARA' IN PIAZZA PER LA LIBERAZIONE

Domani è la Festa della Liberazione dell'Italia e dell'Europa dalla barbarie nazifascista: festa di aprile, festa di libertà, come diceva Calamandrei, che esortava a resistere ora e sempre. Su questo insegnamento proseguiamo nell'impegno storico verso l'attuazione della Costituzione che è il risultato della Lotta partigiana. La storia non può essere condivisa,
ma conosciuta per evitare che un eterno presente porti all'oblio: la storia deve essere collettiva per un futuro migliore in cui i principi di giustizia sociale, democrazia civica, uguaglianza dei diritti e delle opportunità, di libertà e di autodeterminazione della persona siano basi fondanti di una convivenza pacifica tra i popoli.

La Lista Uniti con Dario Fo domani dà appuntamento a Milano a manifestare per la Festa della Liberazione, perchè non sia solo una ricorrenza e un cerimoniale, ma sia occasione di un rinnovato impegno a essere "sentinelle partigiane" dell'oggi e dei principi su cui si fonda la nostra cultura.

La Lista sarà domani dietro allo striscione unitario della Lista Civica "Un'altra Provincia", insieme al candidato presidente Massimo Gatti, per iniziare un percorso collettivo che si riconosca nell'antifascismo e nell'antirazzismo.

L'appuntamento è alle 14,30 davanti al Planetario di Corso Porta Venezia Milano

Venerdì, 24 Aprile, 2009 - 20:01

Buon 25 aprile! Buona festa della Liberazione!

Martedì, 3 Marzo, 2009 - 09:51

Un capitolo di storia: Marzo ’44, i giorni della Breda

Un capitolo di storia

Marzo ’44, i giorni della Breda

Mese cruciale per la Resistenza. Dal 1° marzo tutta l’Italia controllata dai tedeschi viene scossa da una grande ondata di scioperi. Prima il triangolo industriale e poi molte altre realtà, nel Veneto, in Emilia e in Toscana. I ricordi di un protagonista di Giovanni Rispoli

“Questo fenomeno, di una vastità senza precedenti, è qualcosa di più di un movimento di classe (…). Ed è qualche cosa di più di un movimento nazionale in quanto esso si intona alla guerra di resistenza che si combatte senza quartiere in ogni paese dove ha messo piede il tedesco (…)”.

È il 6 marzo del 1944, già sera nell’Italia divisa in due dal conflitto. Il colonnello Stevens, da Radio Londra, commenta con parole piane lo straordinario evento che tedeschi e fascisti si trovano in quei giorni a fronteggiare: l’ondata di scioperi, data d’avvio il 1° marzo, che dopo Torino e Milano, passando per le fabbriche del vicentino, spingendosi a Porto Marghera, via Bologna scendendo a Firenze, ha bloccato un po’ dappertutto le regioni industriali del paese.

Beppe Carrà, oggi giovanissimo ottantenne allora diciottenne in fretta diventato uomo, ne fu a Sesto San Giovanni, cuore operaio della Lombardia, uno degli animatori – poi, dopo la guerra, sarebbe stato a lungo sindaco di Sesto e parlamentare del Pci –. Abbiamo voluto raccoglierne la testimonianza convinti che i suoi ricordi, in tempi di memorie troppo spesso recitate al presente, possano aiutarci non solo a illuminare un momento cruciale della nostra storia ma anche a guardare in maniera un po’ più avvertita a quel che oggi ci scorre davanti.

“Sì, lavoravo alla Breda ed ero membro del Comitato segreto di agitazione, l’organismo che aveva il compito di preparare lo sciopero. La fabbrica – ci dice scandendo le parole in questo inizio di racconto – l’avevo conosciuta nel marzo del ’40, a quattordici anni, due mesi prima che l’Italia entrasse in guerra. Entrato come apprendista, con la scuola serale ero diventato poi disegnatore meccanico.

“La mia famiglia veniva da Stradella. Prima di stabilirci a Sesto San Giovanni eravamo stati a Milano. Mio padre faceva il falegname, uno zio aveva messo su una piccola impresa in cui si lavorava il cuoio. Erano antifascisti. Per me fu del tutto naturale, una volta in Breda, stabilire un rapporto con gli operai che non si erano rassegnati alla dittatura. Importante in particolare l’incontro con Eugenio Mascetti, capo tecnico del reparto motori, che aveva fatto il confino, e Paolo Pulici, un operaio specializzato. Mi misero un po’ alla prova, per capire se potevano fidarsi. Verso la fine del ’43 ero già nel Pci.

“La Breda? Beh, per i tedeschi era assai importante. Un’azienda dedicata essenzialmente alla produzione bellica: armi, bombe, aerei e così via. Eravamo più di 18mila divisi in cinque sezioni. Io lavoravo al reparto torrette. Sì, quelle che si vedono nei film di guerra: le cupole girevoli degli aerei da dove sparano i mitraglieri. Come tutte le grandi fabbriche, la nostra era costretta alla disciplina militare. I tedeschi erano presenti direttamente con un loro presidio che aveva due compiti: primo, garantire le regole, ferree, d’occupazione; secondo, il controllo della produzione industriale. A fianco dei tedeschi i fascisti, che si davano da fare, diciamo così, con un ufficio disciplina.

“Mangiavamo malissimo. Ricordo un piatto orrendo fatto di fagioli e fichi secchi e, immancabile, il formaggio Roma, una roba scadente che non si capiva da dove venisse.

“Tu dici che gli storici ricordano sempre e giustamente come il grande sciopero del ’44 non sia nato all’improvviso e che era stato preceduto, nell’autunno-inverno, dalle forme più svariate di protesta. Ti voglio raccontare una cosa, allora. Eravamo a mensa, parlo di un episodio della fine del ’43: erano le 13, l’altoparlante dava come ogni giorno a quell’ora il bollettino di guerra. Non ne potevamo più: della guerra… del formaggio, di tutto il resto, e decidemmo di organizzare una protesta; ma lucidamente, non fu solo un moto di rabbia. Così, al grido di ‘Roma o morte’, lanciammo le nostre scodelle di alluminio contro l’altoparlante. La voce dello speaker prese a gracchiare, il formaggio era servito finalmente a qualcosa.

“Ma torniamo nei reparti. Lavoro duro, il cottimo che ci distruggeva le giornate. Vivevamo una doppia coercizione: quella che veniva dai ritmi imposti dalla direzione aziendale, quella esercitata dai tedeschi. I tempi poi si allungavano enormemente, per molti, a causa della difficoltà dei trasporti. Ci si muoveva in bicicletta, non c’era altro mezzo, lo facevo anch’io ma ero tra i fortunati, abitavo a un paio di chilometri dalla fabbrica. Non casualmente le gomme per le bici furono tra le rivendicazioni dello sciopero.

“Il clima, fuori, era cupo. All’ombra dei tedeschi, a Milano imperversavano gli uomini della Muti, per lo più criminali liberati dalle galere e arruolati nell’esercito di Salò. I bombardamenti erano pesanti, distrussero anche la quinta sezione della Breda, da dove uscivano gli aerei da caccia. Comprare qualcosa da mettere in tavola era un’impresa: si viveva di borsa nera, bisognava andare a rifornirsi nell’Oltrepò pavese, in Brianza. E i pochi soldi che si guadagnava erano sempre più pochi. Come non bastasse c’era l’assillo dei controlli. Con le prepotenze che dovevi sopportare. ‘Eccolo, viene dalla Breda, un altro sovversivo’. E ti mollavano una pedata. Poi dovevano lasciarti andare via: avevi il lasciapassare tedesco. Ma, insomma, il clima era questo: soffocante. E l’insofferenza era cresciuta enormemente. Bisognava solo organizzarla.

“La preparazione fu lunga. Con le rivendicazioni materiali, salario e razioni alimentari, c’era quella politica: via i nazifascisti, vogliamo la pace. Facemmo circolare per settimane, in fabbrica, i bollettini del Comitato d’agitazione, eravamo attenti alle regole cospirative ma poi c’erano i rapporti personali: si parlava, no? La coscienza operaia, in quei mesi, era cresciuta, si capiva che c’era ormai la volontà di farla finita con la guerra: non si trattava di una coscienza militante, intendiamoci, ma eravamo ben oltre i sentimenti che avevano animato gli scioperi dell’anno prima, del marzo ’43, quelli che avevano preceduto la caduta del fascismo.
“Così arrivammo al momento fatidico. Nei giorni precedenti le riunioni si erano infittite. La sera prima ci incontrammo ancora per definire tutti i particolari. E la mattina del 1° marzo, tra le 8 e le 10, la fabbrica si fermò.

“Se l’aspettavano? Certo che se l’aspettavano. Ma non pensavano che lo sciopero potesse avere quell’ampiezza. La direzione fece sapere che il lavoro andava immediatamente ripreso. Ma fu tutto inutile. Così, il giorno seguente, come accadde in molte altre aziende, venne decisa la serrata. I militi della Tagliamento occuparono poco dopo la fabbrica e il 3 presero in ostaggio i turnisti, che noi facevamo andare al lavoro. Provammo a entrare, ma ci bloccarono mentre sui muri era apparsa la scritta: ‘Operai, cosa volete, piombo?’.

“Altro che socializzazione, già. Poco prima, in febbraio, c’era stata questa trovata dei repubblichini. Ma non ci aveva creduto nessuno. E lo sciopero approfondì ulteriormente il fossato tra gli operai e il fascismo.

“Come si chiuse? Beh, ovviamente non poteva continuare all’infinito. Verso il 6-7 cominciammo ad avvertire qualche sintomo di sfilacciamento. La situazione si era fatta difficile. Erano iniziati gli arresti, alla fine sarebbero stati deportati centoventicinque lavoratori: praticamente tutti, centoventitrè, a Mauthausen. Fra l’altro si era diffusa un’aspettativa: l’arrivo dei partigiani; non solo i Gap, le formazioni che operavano in città, ma i partigiani di montagna. E questo, se in un primo momento ci aveva aiutato, era diventato poi controproducente. I partigiani non arrivavano, non potevano arrivare, serpeggiava una certa disillusione. Così l’8 marzo si decise di ritornare in fabbrica. Sotto il profilo pratico lo sciopero non diede nulla, è vero. Ma dal punto di vista politico ebbe un’importanza enorme. L’eco fu davvero grande, ne parlò tutta l’Europa. E ci aiutò in seguito a rafforzare la lotta partigiana.

“Cosa mi accadde? Poco dopo dovetti scappare. Si presentò in Breda una squadra della polizia di sicurezza tedesca. Ero stato già avvertito dai portinai. Scavalcai, entrai nella Pirelli, che era lì a un passo, i compagni mi tennero nascosto un giorno e una notte, presi poi la strada dell’Oltrepò dove andai a combattere nelle formazioni garibaldine. Ma nel febbraio del ’45 ritornai in fabbrica. Il comando militare partigiano di Sesto era caduto quasi tutto nelle mani dei nazifascisti: un colpo pesantissimo. La mia presenza era giudicata necessaria, mi chiesero di rientrare. Arrivai alla Breda con documenti falsi e andai dall’ingegner Bozzini, il capo del personale, che ovviamente mi conosceva, con la pistola in pugno. Bozzini non mi denunciò, questo gli avrebbe evitato in seguito l’epurazione. Non toccai più un solo strumento di lavoro: fino al 25 aprile, tutti i giorni, mi dedicai soltanto al mio impegno politico-militare. Gli altri operai, straordinaria complicità, facevano finta di nulla”.

Venerdì, 27 Febbraio, 2009 - 13:34

MEMORIA SFREGIATA

MEMORIA SFREGIATA
Imbrattata la lapide che ricorda Eugenio Curiel alla vigilia del sessantaquattresimo anniversario dell’assassinio
da ChiamaMilano del 27.2.2009

“Capo ideale e glorioso esempio a tutta la gioventù italiana di eroismo, di amore per la Patria e per la Libertà”.
Sono le parole incise sulla lapide in piazza Conciliazione che ricorda Eugenio Curiel, riprese  dall’encomio che gli assegnò la medaglia d’oro al valor militare.
Eugenio Curiel fu ucciso dai repubblichini il 24 febbraio del 1945 in piazza Conciliazione. Quei repubblichini, o “ragazzi di Salò” come vorrebbe una zuccherosa vulgata revisionista,  che un progetto di legge che dovrebbe essere discusso dal Parlamento vorrebbe equiparare ai Partigiani nel riconoscimento di combattenti per l’Italia.
Eugenio Curiel aveva 32 anni, quando fu fucilato su indicazione di un delatore. Era giunto a Milano da Ventotene –dove era al confino dal 1940– nell’estate del 1943 per unirsi alla lotta di liberazione. Dirigeva l’Unità clandestina e guidava il Fronte della gioventù, la formazione unitaria dei giovani partigiani costituita dai rappresentanti dei giovani comunisti, socialisti, democratici cristiani, liberali e del Partito d'Azione.
Alla vigilia del sessantaquattresimo anniversario della morte la lapide che ricorda Eugenio Curiel è stata imbrattata con vernice rossa e alla sua base sono stati lasciati trenta bossoli di proiettile.
É l’ennesimo e indubbiamente più grave caso registrato a Milano negli ultimi anni. Dal 2007 si è verificato un crescendo di atti vandalici, dal chiaro significato politico, contro le lapidi che ricordano i Partigiani vittime delle esecuzioni dei repubblichini e dei nazisti: gli sfregi alle lapidi in Porta Romana e alla rotonda di Rozzano, la lapide in piazza Miani frantumata due volte, nel giugno del 2007 e nel gennaio 2008.
Tre giorni fa lo sfregio alla lapide in memoria di Eugenio Curiel. Un episodio che segna un preoccupante salto di qualità, poichè messo in atto proprio nell’anniversario dell’assassinio e condito da 30 bossoli di proiettile.
Impossibile derubricarlo, come vorrebbero gli “equiparatori” di memoria, a semplice atto vandalico.

B.P.

Venerdì, 9 Gennaio, 2009 - 15:20

Nessun riconoscimento ai repubblichini: nemici dello Stato

Come ha detto un mio caro amico:
"Vogliono appropriarsi anche della storia, non si accontentano di fregarci il presente."
Antonella Fachin

Una proposta di legge assegna lo status di combattente a chi aderì a Salò.

Intervista a Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale

"Nessun riconoscimento ai repubblichini. Erano e restano nemici dello Stato"

(da www.Repubblica.it)

di MATTEO TONELLI
<b>"Nessun riconoscimento ai repubblichini<br></b>Erano e restano nemici dello Stato" </b> Giuliano Vassalli
ROMA - "Che vuole che le dica, la situazione è difficile ma bisogna fare di tutto per far sapere come stanno realmente le cose. Chiarire a chi non l'ha vissuto cosa è stato quel periodo storico". Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale, classe 1915, è amareggiato ma non rassegnato. A lui, arrestato e torturato durante il fascismo, il nuovo tentativo di "equiparare" per legge partigiani, deportati e militari ai repubblichini di Salò, proprio non piace.

Per farlo il Pdl ha presentato una proposta che ha come primo firmatario Lucio Barani del Nuovo Psi (schierato con il centrodestra). Un disegno di legge, il numero 1360, con il quale la maggioranza pretende di istituire l'Ordine del Tricolore, con tanto di assegno vitalizio. Assegnandolo indistintamente sia ai partigiani, sia "ai combattenti che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente e aderirono a Salò". Un testo che l'Anpi bolla come "l'ennesimo tentativo della destra di sovvertire la Storia d'Italia e le radici stesse della Repubblica"

Presidente Vassalli un'operazione analoga fu tentata anche nelle precedenti legislature, ma venne respinta. Adesso il tentativo riprende vigore. Perché è contrario?
"Perché è assolutamente chiaro che c'è stata la continuità dello Stato anche dopo l'8 settembre e la caduta del fascismo. E non si può riconoscere a chi ha contrastato lo stato italiano sovrano schierandosi con la Repubblica sociale il titolo di combattente. La Cassazione è chiara in merito. Tutte quelle pronunce sono concordi nel definire i repubblichini come nemici".

Lo scorso 2 giugno il ministro della Difesa Ignazio Larussa chiese di accomunare i morti "di entrambe le parti". I firmatari parlano di "un progetto coerente con la cultura di pace della nuova Italia".
"Ma cosa vogliono ancora? Hanno avuto tutto, l'amnistia di Togliatti, la legittimazione democratica immediata, l'Msi in Parlamento, adesso sono al potere. Eppure vanno avanti, incuranti del fatto che non esiste paese in Europa dove i collaborazionisti del nazismo sono premiati".

La formulazione del testo apre la porta anche alla legittimazione a tutti coloro che "facevano parte delle formazioni che facevano riferimento alla Rsi". Non solo dunque agli appartenenti delle 4 divisioni dell'esercito ma anche a chi faceva parte delle "brigate nere".
"E' vero ma non c'è spazio per sottilizzare troppo. Lo status di combattente non va riconosciuto a nessuno di coloro che fecero parte della Rsi. Bisogna dire no e non solo per ragioni politiche ma anche dal punto di vista costituzionale".

Martedi 13 gennaio alle 16, Giuliano Vassalli interverrà all'iniziativa organizzata dall'Anpi dal titolo "Totalitarismo e democrazia, occorre rispettare la lezione della storia".

Nell'incontro, che si terrà nella sala del Cenacolo della Camera dei Deputati (vicolo Valdina 3/a), si parlerà della proposta di legge 1360. Intervengono, tra gli altri, lo storico Claudio Pavone, il vicepresidente dell'Anpi Raimondi Ricci e la presidente della commissione difesa della Camera Marina Sereni.
(8 gennaio 2009)

Martedì, 30 Dicembre, 2008 - 10:06

GAZA: finirà mai questa guerra?!?!

Dal libro di  Daniel Barenboim  La Musica sveglia il tempo , pag.167.
"La Dichiarazione d'indipendenza di Israele" ( 1948 ) costituì uno stimolo a credere negli ideali che ci trasformarono da ebrei in israeliani.
Questo documento straordinario sanciva certi impegni: “Lo Stato di Israele si  dedicherà allo sviluppo di questo paese per il bene di tutti i suoi cittadini ; sarà fondato  sui principi di libertà, giustizia e pace, e sarà guidato dalla visione dei  profeti di Israele; garantirà pieni e eguali diritti, sociali e politici, a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalle differenze  di religione, di razza o di sesso; tutelerà la libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura".

Certo, la dichiarazione di indipendenza di Israele non ripudia la guerra, come affermato nella nostra Costituzione, ma c'è da chiedersi, come ha fatto Mustafa Barghouti:

Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?
Intervento dell'ex ministro dell'informazione del governo di unità nazionale palestinese, Mustafa Barghouti.
Ramallah, 27 dicembre 2008.
"E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua.
Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano?
Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l'elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto?
E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa.
La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d'altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all'angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l'obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas. Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l'esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l'altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.
E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l'ennesima arma di distrazione di massa per l'opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili. Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l'unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell'occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall'altro lato del Muro?
Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l'indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell'aria, come sugheri sull'acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele.
Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant'anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull'ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l'esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l'altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.
So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l'ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?"
(testo raccolto da Francesca Borri e pubblicato sul sito www.peacereporter.it)

Data la tragicità della guerra tra Israele e il popolo palestinese e i tanti morti a Gaza e nel sud di Israele, riporto qui di seguito altri contributi di informazione e riflessione.

 
AMNESTY INTERNATIONAL CHIEDE PROTEZIONE PER I CIVILI A GAZA E NEL SUD D'ISRAELE 
Amnesty International ha chiesto alle forze israeliane e ai gruppi armati palestinesi di porre immediatamente fine agli attacchi illegali contro Gaza e il sud d'Israele, che a partire da sabato 27 dicembre hanno causato
la morte di almeno 280 civili palestinesi e di due civili israeliani. 
I bombardamenti sulla Striscia di Gaza hanno provocato il piu' alto numero di morti e feriti mai registrato in quattro decenni di occupazione israeliana: tra le vittime palestinesi vi sono decine di civili non armati e di poliziotti che non stavano prendendo parte alle ostilita'. 
'L'uso sproporzionato della forza da parte di Israele e' illegale e rischia di provocare ulteriore violenza in tutta la regione' - ha
dichiarato Amnesty International. 'L'escalation di violenza e' arrivata in un momento in cui la popolazione di Gaza gia' era impegnata in una lotta quotidiana per la sopravvivenza, a causa del blocco israeliano che impedisce l'ingresso anche di viveri e medicinali'.

'Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi condividono la responsabilita' per l'escalation. I continui lanci di razzi sulle citta' e i villaggi israeliani sono illegali e non possono essere giustificati in alcun modo' - ha proseguito Amnesty International, che ha sollecitato la comunita' internazionale a intervenire senza indugio per garantire che i civili intrappolati nella violenza siano protetti e che il blocco di Gaza sia rimosso. 
L'ultimo pesante attacco ha portato a 650 il numero dei palestinesi uccisi quest'anno dalle forze israeliane: almeno un terzo delle vittime, tra cui 70 bambini, erano civili. Nello stesso periodo, i gruppi armati palestinesi hanno ucciso 25 israeliani, 16 dei quali civili, tra cui quattro bambini. Negli ultimi otto anni la violenza israelo-palestinese ha causato la morte di circa 5000 palestinesi e 1100 israeliani. La maggior parte delle vittime da entrambi i lati erano civili e tra esse figurano circa 900 bambini palestinesi e 120 bambini israeliani. 
Nelle ultime settimane le agenzie delle Nazioni Unite, che provvedono all'80 per cento del fabbisogno alimentare di un milione e mezzo di abitanti, hanno ripetutamente protestato contro il rifiuto israeliano di consentire l'ingresso di aiuti umanitari a Gaza.

Il blocco israeliano ha fatto si' che la tregua di cinque mesi e mezzo tra Israele, Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi migliorasse di poco o niente la vita della popolazione di Gaza. La tregua e' di fatto cessata il 4 novembre, quando le forze israeliane hanno ucciso sei militanti palestinesi e una scarica di razzi palestinesi ha colpito le citta' e i villaggi del sud d'Israele.
FINE DEL COMUNICATO Roma, 29 dicembre 2008

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"Nell'aria acre odore di zolfo, nel cielo lampi intermezzano fragorosi boati.
Ormai le mie orecchie sono sorde dalle esplosioni e i miei occhi aridi di lacrime dinnanzi ai cadaveri.

Mi trovo dinnanzi all'ospedale di Al Shifa, il principale di Gaza, ed è appena giunta la terribile minaccia che Israele avrebbe deciso di bombardare la nuova ala in costruzione.
Non sarebbe una novità, ieri è stato bombardato l'ospedale Wea'm.
Insieme ad un deposito di medicinali a Rafah,
l'università islamica (distrutta),
e diverse moschee sparse per tutta la striscia.
Oltre a decine di installazioni CIVILI.

Pare che non trovando più obbiettivi "sensibili",
l'aviazione e la marina militare si diletti nel bersagliare luoghi sacri, scuole e ospedali.

E' un 11 settembre ad ogni ora, ogni minuto, da queste parti,
e il domani è sempre una nuovo giorno di lutto, sempre uguale.
Si avvertono gli elicotteri e gli aerei costantemente in volo,
quando vedi il lampo, sei già spacciato,
è troppo tardi per mettersi in salvo.

Non ci sono bunker antibombe in tutta la Striscia,
nessun posto è al sicuro.

Non riesco a contattare più amici a Rafah,
neanche quelli che abitano a  Nord di Gaza city,
spero perchè le linee sono intasate.
Ci spero.
Sono 60 ore che non chiudo occhio,
come me, tutti i gazawi.

Ieri io e altri 3 compagni dell'ISM abbiamo trascorso tutta la nottata all'ospedale di al Awda del campo profughi di Jabalia. Ci siamo andati perchè temevamo la tanto paventata incursione di terra che poi non si è verificata.
Ma i carri armati israeliani stazionano pronti lungo il confine tutto il confine della Striscia,
il loro cingoli affamati di corpi pare si metteranno in funerea marcia questa di notte.

Verso le 23,30 una bomba è precipitata a circa 800 metri dall'ospedale,
l'onda d'urto a mandato in frammenti diversi vetri delle finestre, ferendo i feriti.
Un' ambulanza si è recata sul posto, hanno tirato giù una moschea, fortunatamente vuota a quell'ora.
Sfortunatamente, anche se non di sfortuna ma di volontà criminale e terroristica di compiere stragi di civili,
la bomba israeliana ha distrutto anche l'edificio adiacente alla moschea, distruggendolo.

Abbiamo visto tirare fuori dalle macerie i corpicini di sei sorelline.
5 sono morte, una è gravissima.

Hanno adagiato le bambine sull'asfalto carbonizzato,
e sembravano bamboline rotte, buttate via perchè inservibili.
Non è un errore, è volontario cinico orrore.
Siamo a quota 320 morti,
più di un migliaio i feriti, 
secondo un dottore di Shifa il 60% è destinato a morire nelle prossime ore,
nei prossimi giorni di una lunga agonia. 
Decine sono i dispersi,
negli ospedali donne disperate cercano i mariti, i figli,
da due giorni, spesso invano.
E' uno spettacolo macabro all'obitorio.
Un infermiere mi ha detto che una donna palestinese dopo ore di ricerca fra i pezzi di cadaveri all'obitorio,
ha riconosciuto suo marito da una mano amputata.
Tutto quello che di suo marito è rimasto,
e la fede ancora al dito dell'amore eterno che si erano ripromessi. 
Di una casa abitata da due famiglie,
è rimasto ben poco dei corpi umani.
Ai parenti hanno mostrato un mezzo busto,
e tre gambe. 
Proprio in questo momento una delle nostre barche del Free Gaza Movement sta lasciando il porto di Larnaca in Cipro. Ho parlato coi miei amici a bordo. Eroici, hanno ammassato medicinali un pò in ogni dove sull'imbarcazione.
Dovrebbe approdare al porto di Gaza domani verso le 08.00 am.
Sempre che il porto esista ancora dopo quest'altra notte di costanti bombardamenti.
Starò in contatto con loro tutto questo tempo.

Qualcuno fermi questo incubo.
Rimanere in silenzio significa supportare il genocidio in corso.
Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo "civile",
in ogni città, in ogni piazza,
sovrastate le nostre urla di dolore e terrore.
C'è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto. 
Vik in Gaza
Vittorio Arrigoni"

Martedì, 4 Novembre, 2008 - 15:33

per un 4 novembre diverso: L’obbedienza non è più una virtù

Per un 4 novembre diverso, conviene leggersi -o rileggersi- lo scritto di Don Milani
"L’obbedienza non è più una virtù".

Il testo che riporto in allegato costò a don Lorenzo Milani, priore del minuscolo e poverissimo borgo montanaro di Barbiana, nel Mugello, un processo per apologia di reato.
Scritto nel febbraio del 1965, è indirizzato ai cappellani militari toscani che in un comunicato avevano definito l'obiezione di coscienza (fino al 1972 assimilata alla renitenza alla leva e alla diserzione) «estranea al comandamento cristiano dell'amore» e «espressione di viltà».
Milani stesso raccontò più tardi che un ritaglio di giornale col comunicato dei cappellani gli era stato portato da un amico mentre come sempre stava con i suoi ragazzi: l'attività quasi esclusiva del priore a Barbiana era infatti quella scuola popolare (attiva «dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno») che avrebbe di lì a poco prodotto Lettera a una professoressa, il più radicale pamphlet contro la scuola di classe mai scritto in Italia.
Lo sdegno dei ragazzi per il fatto che nessuna autorità, né civile né religiosa, avesse reagito al pronunciamento dei cappellani rafforza nel priore la scelta di prendere posizione.
Dalle ricerche e gli studi fatti con i suoi scolari nasce la Lettera ai cappellani militari, dapprima stampata e diffusa in mille copie e poi ripresa dal settimanale del Partito comunista italiano Rinascita.
Scoppia un caso: una campagna stampa denigratoria e ostile, una pioggia di lettere anonime, la minaccia della sospensione a divinis per Milani, la denuncia, per Milani e il direttore di Rinascita Luca Pavolini.
Milani si autodifende rincarando la dose in una famosa Lettera ai giudici.
Entrambi gli imputati vengono assolti in primo grado «perché il fatto non costituisce reato».
Nel processo d'appello Pavolini sarà condannato a cinque mesi e dieci giorni,
nel caso del priore «il reato è estinto per morte del reo»: Lorenzo Milani era morto di cancro ai polmoni, a 44 anni, il 26 giugno 1967.

Allegato Descrizione
Per un 4 novembre diverso.pdf
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Lunedì, 3 Novembre, 2008 - 18:08

4 novembre:Non glorificare la guerra - ignoranza e falsi idoli

Ecco alcuni articoli che meritano di essere letti, perchè aiutano a riflettere.

Manifesto – 2.11.08

La Russa: il 4 novembre sarà vacanza
ROMA - Se il 2 novembre «ogni famiglia ricorda i propri morti, così la grande famiglia della Difesa ricorda i propri caduti». Questa volta il ministro Ignazio La Russa si riferisce a «quelli di ieri e quelli di oggi, quei militari che in tutte le epoche sono stati chiamati a servire la patria difendendola o operando per essa fino al sacrificio della propria vita», senza scendere in particolari. Il ministro, in competizione con il titolare del Viminale, il leghista Roberto Maroni, sulla sicurezza, aggiunge che «oggi dobbiamo ricordare anche chi, ispirato dalle stesse motivazioni, ha perduto la vita nell'adempimento del proprio dovere in patria, nella lotta alla criminalità e per cause di servizio». Poiché per il 4 novembre, festa delle forze armate, ha deciso di lanciare una campagna in grande stile, con tanto di spot in televisione, al cinema e negli stadi, il ministro della difesa e «reggente» di Alleanza nazionale annuncia poi a Gr parlamento che la ricorrenza della fine della prima guerra mondiale «sta per ridiventare non solo festa nazionale, perché lo è già, ma giorno di vacanza, esattamente come lo è il 2 Giugno e come lo è il 25 Aprile». Il novantesimo anniversario del 4 novembre prevede, oltre alla cerimonia a Roma, all'Altare della patria, un week end, il prossimo, con esibizioni delle forze armate in tutti i capoluoghi di regione e il concerto di Andrea Bocelli a Roma, a piazza del Popolo. E il ministero della difesa manderà persino militari nelle scuole, non a sostegno della legge Gelmini, ma per spiegare la prima guerra mondiale.
Non si torni a glorificare la guerra - Domenico Gallo
Come tutti sanno il 4 novembre, anniversario della fine della I guerra mondiale, ricorre la festa delle forze armate e dell'unità nazionale. Quest'anno la celebrazione della festa del 4 novembre sta diventando qualcosa di straordinario per l'attivismo del ministro della Difesa, La Russa, che ha organizzato una lunga serie di manifestazioni di vario genere e ha previsto, persino, l'invio nelle scuole di ufficiali della Forze Armate per celebrare la ricorrenza con gli studenti. In linea di principio non c'è niente di strano che un paese celebri una festa delle proprie forze armate per ricordare i caduti di tutte le guerre e non c'è niente di strano che in Italia questa data venga fissata proprio il 4 novembre, anniversario della resa dell'esercito austriaco e quindi della fine della I guerra mondiale. Tuttavia è innegabile che, in Italia, questa festa sconta un peccato originale. Essa è stata istituita, all'indomani della guerra, per celebrare la «vittoria» di Vittorio Veneto, sotto la spinta dell'esigenza di elaborare il lutto, secondo il vecchio schema della retorica patriottica, trasformando la morte in «sacrificio», in offerta generosa della vita per la salute della collettività. Per questo è stato inventato il rito del «milite ignoto», tumulato nel sacello dell'Altare della Patria il 4 novembre 1921. Nella prima metà del secolo scorso le nostre piazze e le nostre chiese, i nostri municipi si sono ammantati di lapidi che «celebravano» il sacrificio dei nostri combattenti, caduti per la Patria. Nello stesso tempo quelle lapidi chiudevano la bocca a ogni dissenso che potesse mettere in discussione i meccanismi della politica e del potere che quelle morti avevano prodotto. Morire per la Patria era un evento sacro e generoso: solo con questa trasfigurazione ideologica della morte si poteva rendere accettabile alla coscienza collettiva il peso insostenibile del dolore che aveva devastato la vita di quasi tutte le famiglie italiane (la grande guerra aveva prodotto circa 750.000 morti, il doppio dei caduti che si sarebbero avuti con la II guerra mondiale). Se nella seconda metà del secolo scorso quelle lapidi non sono state più erette, e il culto della morte non è stato più celebrato, ciò è avvenuto perché la politica (e la Costituzione) lo ha impedito. Proprio questo vuol dire il ripudio della guerra: che la morte è stata tolta dagli utensili della politica, che deve perseguire i propri legittimi obiettivi con mezzi diversi dalla violenza bellica. Sotto l'egida della Costituzione repubblicana, il mutato clima culturale, politico e istituzionale ha trasformato il senso delle celebrazioni del 4 novembre rispetto all'impostazione originaria. Senonché la situazione è cambiata con l'avvento al governo di un ceto dirigente portatore di una cultura politica estranea, se non configgente, con i valori costituzionali. Con un ministro della difesa che, con riferimento all'Afghanistan, ci ha fatto sapere di non nutrire più alcun «pregiudizio» in ordine al ricorso alla guerra come strumento della politica e che ha trasformato le celebrazioni di momenti della resistenza, come l'8 settembre a Roma, in
occasioni per l'apologia delle bande repubblichine, è evidente che tutto quest'ardore celebrativo nasconde un'operazione ideologica. Il rischio è quello di tornare alle origini e di trasformare nuovamente il 4 novembre in un momento di celebrazione della morte e di glorificazione della guerra: insomma una festa anti-ripudio della guerra. Il 4 novembre bisogna reagire alla fanfara suonata dal pifferaio La Russa, confrontandosi con la memoria storica e mettendo a nudo la falsità dei miti con i quali si è corrotta in passato e, oggi, si sta tentando di nuovo di corrompere la coscienza collettiva. Bisogna ricordare che quella guerra è uscita fuori da ogni schema razionale e che il progresso scientifico applicato all'arte della guerra ha trasformato il conflitto bellico in sterminio di massa e aperto la strada ai fascismi del XX secolo, a ulteriori barbarie e ad altri olocausti. Non si deve dimenticare, ma bisogna di nuovo fare lezione dalle tragedie del passato per evitare che si ripetano nel nostro futuro. La ricorrenza del 4 novembre deve essere utilizzata non per glorificare la guerra, come si accinge a fare il ministro La Russa, ma per celebrare la fine dell'orrendo massacro che ha insanguinato l'Europa e per riproporre l'impegno a salvare le generazioni future dal flagello della guerra che, nel secolo scorso, come recita il preambolo della Carta delle Nazioni Unite, per ben due volte, nel corso della stessa generazione ha causato sofferenze indicibili all'umanità.
Liberazione – 2.11.08
L'indifferenza arrogante del generale – Emilio Lussu*
Un brano dal libro/diario più bello e famoso
Il tenente generale comandante la divisione, ritenuto responsabile dell'abbandono ingiustificato di Monte Fior, fu silurato. In sua sostituzione, prese il comando della divisione, il tenente generale Leone. L'ordine del giorno del comandante di corpo d'armata, ce lo presentò «un soldato di provata fermezza e d'esperimentato ardimento».
Io lo incontrai la prima volta a Monte Spill, nei pressi del comando di battaglione. Il suo ufficiale d'ordinanza mi disse che egli era il nuovo comandante la divisione ed io mi presentai. Sull'attenti, io gli davo le novità del battaglione. - Stia comodo,- mi disse il generale in tono corretto e autoritario. - Dove ha fatto la guerra, finora? - Sempre con la brigata, sul Carso. - E' stato mai ferito? - No, signor generale. - Come, lei ha fatto tutta la guerra e non è stato mai ferito? Mai? - Mai, signor generale. A meno che non si vogliano considerare tali alcune ferite leggere che mi hanno permesso di curarmi al battaglione, senza entrare all'ospedale. - No, no, io parlo di ferite serie, di ferite gravi. - Mai, signor generale. - E' molto strano. Come lei mi spiega codesto fatto? - La regione precisa mi sfugge, signor generale, ma certo che io non sono stato mai ferito gravemente. - Ha preso lei parte a tutti i combattimenti della sua brigata? - A tutti. [...] - Molto strano. Per caso, sarebbe lei un timido? [...] - Credo di no, - risposi. - Lo crede o ne è sicuro? - In guerra, non si è sicuri di niente, - risposi io dolcemente. E soggiunsi, con una bozza di sorriso che voleva essere propiziatorio: - neppure di essere sicuri. Il generale non sorrise. Già, credo che per lui fosse impossibile sorridere.[...] - Ama lei la guerra? - Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v'erano ufficiali e soldati che sentivano. Mi decisi a rispondere. - Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia università rappresentavo il gruppo degli interventisti. - Questo, - disse il generale con tono terribilmente calmo, - riguarda il passato. Io le chiedo del presente. - La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se … è difficile … Comunque, io faccio il mio dovere -. E poiché mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: - tutto il mio dovere. - Io non le ho chiesto, - mi disse il generale, - se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati.
Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra. - Amare la guerra!- esclamai io, un po' scoraggiato. Il generale mi guardava fisso, inesorabile. Le pupille gli si erano fatte più grandi. Io ebbi l'impressione che gli girassero nell'orbita. - Non può rispondere?- incalzava il generale. - Ebbene, io ritengo …certo… mi pare di poter dire… di dover ritenere… Io cercavo una risposta possibile. - Che cosa ritiene lei, insomma? - Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di prediligere, in modo particolare, la guerra. - Si metta sull'attenti! Io ero già sull'attenti. - Ah, lei è per la pace? Ora, nella voce del generale v'erano sorpresa e sdegno. - Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all'alcova, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! E' così, signor tenente? - No, signor generale. -E quale pace desidera mai, lei? - Una pace… E l'ispirazione mi venne in aiuto. - Una pace vittoriosa. Il generale parve rassicurarsi. Mi rivolse ancora qualche domanda di servizio e mi pregò di accompagnarlo in linea. Quando fummo in trincea, nel punto più elevato e più vicino alle linee nemiche, in faccia a Monte Fior, mi chiese: - Quale distanza corre qui, fra le nostre trincee e quelle austriache? - Duecentocinquanta metri circa, - risposi. Il generale guardò a lungo e disse: - Qui, ci sono duecentotrenta metri.- E' probabile. - Non è probabile. E' certo. Noi avevamo costruito una trincea solida, con sassi e grandi zolle. I soldati la potevano percorrere, in piedi, senza esser visti. Le vedette osservavano e sparavano dalle feritoie, al coperto. Il generale guardò alle feritoie, ma non fu soddisfatto. Fece raccogliere un mucchio di sassi ai piedi del parapetto e vi montò sopra, il binocolo agli occhi. Così dritto, egli restava scoperto dal petto alla testa. - Signor generale, - dissi io, - gli austriaci hanno degli ottimi tiratori ed è pericoloso scoprirsi così. Il generale non mi rispose. Dritto, continuava a guardare con il binocolo. Dalle linee nemiche partirono due colpi di fucile. Le pallottole fischiarono attorno al generale. Egli rimase impassibile. Due altri colpi seguirono ai primi, e una palla sfiorò la trincea. Solo allora, composto e lento, egli discese. Io lo guardavo da vicino. Egli dimostrava un'indifferenza arrogante. Solo i suoi occhi giravano vertiginosamente. Sembravano le ruote di un'automobile in corsa. La vedetta, che era di servizio a qualche passo da noi, continuava a guardare la feritoia, e non si occupava del generale. Ma dei soldati e un caporale della 12° compagnia che era in linea, attratti dall'eccezionale spettacolo, s'erano fermati in crocchio nella trincea, a fianco del generale, e guardavano, più diffidenti che ammirati.[...] - Se non hai paura, - disse rivolto al caporale, - fa' quello che ha fatto il tuo generale. - Signor sì, - rispose il caporale. E, appoggiato il fucile alla trincea, montò sul mucchio di sassi. Istintivamente io presi il caporale per il braccio e l'obbligai a ridiscendere. - Gli austriaci, ora, sono avvertiti, - dissi io, - e non sbaglieranno certo il tiro. Il generale, con uno sguardo terribile, mi ricordò la distanza gerarchica che mi separava da lui. Io abbandonai il braccio del caporale e non dissi più una parola. [...] Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, traversandolo da parte a parte. Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi socchiusi, il respiro affannoso, mormorava: - Non è niente, signor tenente. Anche il generale si curvò. I soldati lo guardavano, con odio. - E' un eroe, - commentò il generale. - Un vero eroe.
*da "Un anno sull'altipiano"
La riscossa di Vittorio Veneto? E' una pura invenzione - Lorenzo Del Boca*
Nemmeno la storia della prima guerra mondiale ce l'hanno raccontata giusta. I libri di scuola stentano a mettere in evidenza che l'Italia di quel periodo si barcamenava fra coalizioni avversarie tentando di raccattare qualche utile, con il risultato di apparire un paese di piccoli imbrogli. Alla vigilia della dichiarazione di guerra, per un mese, si trovò alleata contemporaneamente con gli austro-ungarici e con i francesi e gli inglesi che già si massacravano sulle loro frontiere. Il nostro esercito le aveva prese anche da Menelik ed era del tutto evidente che non si trovava nelle condizioni di affrontare una guerra. Vittorio Emanuele III restava un re piccolo-piccolo cui avevano dovuto accorciare la sciabola perché non risultasse più lunga delle sue gambe corte. Chi percorre la selva di memoriali dell'epoca s'imbatte, a ogni passo, nella questione dei cappotti che non c'erano.
Mancavano i fucili; mancavano gli automezzi; mancavano i rifornimenti alimentari e non c'erano medicine. Ma, soprattutto, mancavano le idee. Di presunzione, gli ufficiali degli alti comandi ne disponevano in abbondanza e se fossero stati in grado di ottenere risultati proporzionali all'arroganza che esibivano avrebbero conquistato il pianeta. In realtà, riuscirono soltanto a trasformare le prime linee in un lager dove gli uomini ai loro ordini furono sottoposti a ogni genere di prevaricazioni anche psicologiche. I soldati potevano soltanto soffrire, dannarsi e morire. Al fronte ci mandarono vagonate di operai e contadini che non erano guerrieri e che la guerra non volevano. Per qualche settimana di addestramento, si trovarono con un bastone in mano. Poi gli misero in spalla un fucile vero che non avevano mai usato e li allinearono in faccia al nemico. Nemmeno i gironi infernali potevano essere più spaventosamente crudeli. Le prime linee erano delle catacombe a cielo aperto che si rincorrevano per centinaia di chilometri. In quelle tane, sparpagliate in un territorio sterminato, i soldati vissero quattro anni come gli uomini delle caverne. Tutti dentro, uno addosso all'altro - come nelle Malebolgie della Divina Commedia - diventando fisicamente insopportabili gli uni agli altri. Ammassati, in quei cunicoli artificiali, dove mangiavano e andavano al gabinetto, resistevano alla puzza che prendeva il cervello e si lasciavano vincere dalla nostalgia, tentavano di dormire quando era necessario risposare e si sforzavano di stare svegli quando montavano di guardia. C'era la guerra lì davanti ma occorreva combattere anche la fame e la sete, la pioggia e la melma, i topi e gli scarafaggi, le cimici e la dissenteria, la febbre e la cancrena che afferrava i piedi e saliva fino alle ginocchia. Il terrore, alla vigilia degli assalti, prendeva la gola. Tuttavia, la battaglia più faticosa si rivelò quella contro gli alti ufficiali che, più salivano di grado, più si comportavano come se avessero a che fare con dei servi della gleba. Per gli alti comandi tormentare quegli uomini in uniforme, con imposizioni vanamente disumane e colpevolmente inutili, sembrava diventato un dovere cui dedicare impegno ed energia.
Verrebbe da sostenere che il conflitto vero e proprio - contro gli austro-ungarici - sarebbe stato una passeggiata, se non ci fossero stati i generali italiani. I guai maggiori di chi combatteva per l'Italia vennero dagli stessi italiani. I comandanti si armarono di ordini assurdi. Pretesero di mandare le truppe all'assalto anche quando ogni logica l'avrebbe sconsigliato. Insistettero nello sfidare le leggi della fisica per fortificare posizioni insostenibili. Per ottenere un'obbedienza supina, fucilarono quelli che apparvero più riottosi o anche solo meno pronti a sacrificarsi. Instaurarono un regime di oppressione che sarebbe risultato odioso per una qualunque dittatura. E provocarono la morte di un numero imprecisato di loro uomini, piazzando le mitragliatrici dei carabinieri dietro le file destinate all'assalto, con la disposizione di aprire il fuoco alla schiena dei soldati, se avessero appena ritardato a lanciarsi fuori dalle trincee. Le corti marziali lavorarono a pieno ritmo e i magistrati, seduti sulle stufe arroventate dal fuoco per paura di prendersi un raffreddore, spedirono davanti al plotone di esecuzione una quantità di poveracci analfabeti che il fango delle trincee aveva mutilato. La giustizia del senno di poi avrebbe suggerito di fucilare direttamente il generalissimo Luigi Cadorna (comandante in capo all'inizio del conflitto) e di impiccare Pietro Badoglio: unica opportunità che l'Italia poteva giocarsi per evitare l'otto settembre 1943. La sconfitta di Caporetto fu un disastro che grida vendetta. Poteva essere evitato e si realizzò solo per il concorso determinante della dabbenaggine dei generali dello Stato Maggiore. Ignoranti con i gradi sulla giubba sacrificarono decine di migliaia di uomini e poi li marchiarono con l'accusa di essere stati dei vigliacchi. In questa occasione, come sempre nella storia tricolore, le polemiche si sprecarono ma restarono rigorosamente sigillate nei palazzi del potere. E alla fine - questa volta ma come sempre - non si riuscì a individuare un colpevole o qualcuno più responsabile degli altri. Anzi, si trovò il modo di premiare l'errore e di ricompensare lo sbaglio. Tornarono tutti a casa con le spalle incurvate dal peso delle medaglie. Invece di licenziarli e chiedere loro il risarcimento per i disastri commessi, preferirono promuoverli, aumentare loro lo stipendio e accettare che continuassero a far danni, in nome dei traguardi raggiunti. Anche la cosiddetta riscossa di Vittorio Veneto esiste soltanto sulla carta perché, in quella settimana del 1918, non ci fu nessun assalto e nessuno sfondamento. Gli italiani avanzarono perché gli austriaci si stavano ritirando: e gli austriaci si ritiravano perché era diventato inutile continuare una guerra che era irrimediabilmente perduta. Non a caso il comandante in capo di allora, Armando Diaz - informato di una travolgente avanzata italiana che, evidentemente, non aveva ordinato né che era a conoscenza si stesse sviluppando - tuffò la testa nella cartina geografica, alla ricerca del teatro della sua rivincita. E poiché faticava a individuare il luogo della battaglia, chiese soccorso agli uomini dello Stato Maggiore che gli stavano intorno: «Ma Vittorio Veneto ‘ndo cazzo stà…?»
*presidente dell'Ordine dei giornalisti
Ignoranza e falsi idoli sono consolidate armi di distrazione di massa
Francesco Gesualdi
Se il problema di La Russa fosse l'ignoranza, basterebbe mandargli una copia della lettera che il mio Priore e maestro, don Lorenzo Milani, scrisse ai cappellani militari nel lontano 1965, dalla piccola scuola di Barbiana.
Apprenderebbe, documenti alla mano, che la guerra del ‘15-18 fu un'aggressione all'Austria, una guerra che si poteva evitare:"Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti."
Una guerra di cui vergognarsi, da mantenere nei libri di storia solo per ricordare ai giovani fino a che punto può arrivare il disprezzo di classe: a morire negli assalti alla baionetta non erano gli ufficiali, figli della borghesia, ma i contadini, i montanari, gli analfabeti. Il guaio è che a La Russa non interessa né la storia, né la verità. L'unica cosa che gli interessa è il potere violento, la violenza, la forza, la repressione, come elemento che caratterizza il fascismo e che lo contraddistingue dalle altre forme di potere. Perchè i fascisti propendano per la violenza rimane un mistero, la materia è più da psicologici e psicanalisti, che da ricercatori politici. Ma così è, e se vogliamo capire perchè La Russa vuole tornare a commemorare il 4 novembre nelle scuole d'Italia è da qui che dobbiamo partire. Una richiesta che non va letta come fatto isolato, ma associata a molti altri provvedimenti di questo governo. Un filo rosso, anzi nero, collega la proposta di La Russa al decreto Gelmini e addirittura alle attività che Silvio Berlusconi porta avanti da una vita. Il filo nero si chiama demolizione della democrazia, un progetto che avanza su tre fronti: mantenimento della gente nell'ignoranza, controllo dell'informazione, distrazione e sostituzione del senso di classe. Da oltre trent'anni Berlusconi si dedica al secondo fronte, aveva capito che chi controlla l'informazione controlla non solo le menti, ma la stessa realtà: non è successo ciò che è avvenuto, è successo ciò che la televisione racconta. Così la televisione crea fatti, li distorce, li interpreta, di conseguenza produce opinione, confeziona giudizi, incanala i sentimenti, orienta le scelte, fabbrica eroi e nemici. Tutti sanno che Berlusconi ha vinto grazie alle sue televisioni ed è grave che nei periodi in cui il centrosinistra era al governo non abbia mai introdotto una riforma sul controllo televisivo, non abbia rivisto la legge elettorale, non abbia varato una legge sul conflitto d'interessi. Ed è stata punita. Il pensiero unico ha tanta più possibilità di attecchire quanto più la gente è senza strumenti culturali: nell'ignoranza la complessità spaventa, si rinuncia a capire, si ripiega verso l'informazione sbrigativa, ci si butta nelle braccia di chi ci dà spiegazioni semplici fino ad incoronarlo re. Il progetto autoritario perseguito da Berlusconi ha bisogno di ignoranza, un obiettivo che si ottiene impoverendo la scuola. A questo serve il decreto Gelmini, a declassare così tanto la scuola pubblica da farla diventare parcheggio dei poveri mentre i ricchi fuggono verso le scuole private. Il solito apartheid, che ai figli dei ricchi riserva tempo pieno, classi poco numerose e insegnanti multipli fin dalla materna; ai figli dei poveri orario ridotto, aule sovraffollate, insegnanti insufficienti che al colmo della disperazione rinunciano al ruolo educativo e si trasformano in sorveglianti che annotano sul registro i buoni e cattivi. Ma anche i poveri ignoranti, quando pagano di persona, possono avere un moto di ribellione e possono farsi pericolosi, per questo servono i depistatori, gli addetti alla distrazione di massa che si possono suddividere in due categorie: i fabbricanti di streghe e i fabbricanti di feticci. Ai giorni nostri, il capostipite del primo genere è la Lega Nord che getta la responsabilità di tutti i malanni d'Italia sugli immigrati, la vecchia tattica di incanalare la rabbia verso i più deboli, additandoli come brutti, sporchi, delinquenti e accattoni, mentre i veri ladri se la spassano con la complicità della classe politica: imprenditori, banchieri, assicuratori, palazzinari, mafiosi, che si arricchiscono all'inverosimile grazie alla precarietà del lavoro, alle truffe alle spalle dei risparmiatori, all'evasione fiscale, alla speculazione finanziaria, alla corruzione di stato. Del resto l'operazione non è difficile, fa leva su due paure ataviche. La prima verso la povertà, la miseria: ne abbiamo così tanta paura che cerchiamo di esorcizzarla escludendo ed odiando chi la impersonifica. La seconda verso lo straniero, la cultura fascista ci ha abituati a concepirlo come il nemico e non c'è da stupirsene: non c'è capro espiatorio più comodo di un popolo lontano che la propaganda può dipingere al pari di un diavolo. Così arriviamo all'altra grande operazione di distrazione di massa, la costruzione di idoli, feticci, che hanno lo scopo di camuffare la realtà, distogliere l'attenzione dalle ingiustizie che viviamo. Ed ecco la messa in campo del concetto di patria, il tentativo maldestro di nascondere le divisioni di classe sotto una malcelata unità territoriale minacciata dall'inimicizia dello straniero. Con la sua mossa sulla prima guerra mondiale, La Russa punta a rinfocolare feticci fascisti caduti in disuso. Forse avrebbe preferito farlo evocando una vittoria più moderna, ma la guerra in Afghanistan si prospetta ancora lunga e dagli esiti incerti. In mancanza di meglio va bene anche un'anticaglia di un secolo fa, quantunque debba vedersela con la Lega Nord, suo alleato, che sui confini di patria ha altre idee.
Per parte mi rifaccio ad un altro passaggio della lettera scritta da don Lorenzo Milani ai cappellani militari: "Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri".

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