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Martedì, 4 Maggio, 2010 - 09:20

Come uccidere il 25 aprile a Milano

Dal notiziario ARCIPELAGO,
COME UCCIDERE IL 25 APRILE

3-5-2010 by LBG 
Passato il Primo maggio e le sue celebrazioni possiamo tornare a parlare del 25 aprile e di come uccidere questa ricorrenza; Milano, come il solito, si è distinta. Cominciamo dall’organizzazione della manifestazione e dal suo palcoscenico: piazza del Duomo, la piazza di Milano. Non possiamo pretendere che qui si allestisca qualcosa che anche solo da lontano somigli al concerto in Piazza San Giovanni a Roma, là si trattava di una festa, qui di una celebrazione, ma quello che come tutti gli anni fa il comune di Milano è al di sotto dell’immaginabile.
A ridosso del monumento a Vittorio Emanuele II, col fronte rivolto al Duomo, abbiamo visto la solita pedana – chiamarlo palco non è il caso – di un paio di metri più alta della piazza, circondata da transenne per far spazio ai gonfaloni e per misura di sicurezza. Sulla pedana un affollarsi di facce note e meno note in preda ad una specie di nevrosi da posizionamento – solo chi è al bordo si nota – a far da corona a un oratore che, a meno non fosse – e nessuno lo era – un gigante della specie, non si distingueva dagli altri. Il sistema di amplificazione, non dei migliori, non riusciva a coprire il rumoreggiare della folla e, per chi aveva l’orecchio fino, arrivava a stento ai margini della piazza. Allora che il Comune di Milano si faccia l’esame di coscienza: possibile che non si possa fare nulla di meglio?
Possibile che l’ultimo dei concerti che martirizzano e spesso vandalizzano la piazza si meriti un palcoscenico migliore della manifestazione del 25 aprile? Possibile che non si riesca a erigere qualcosa di più di una pedana rialzata, magari non con lo sfarzo della sfilata del 2 giugno a Roma ma qualcosa che gli somigli? Non ci vuole troppa fantasia per pensare a un palco coperto – niente sole a dardeggiare sulle rade canizie e niente pioggia quando capitasse – qualche fila di seggiole a gradinata per accogliere le autorità e un piccolo leggio con l’immancabile acqua per l’oratore e alle spalle un ormai consueto schermo gigante che consenta anche a chi è lontano di vedere in volto l’oratore e, per finire, il palco per la banda cittadina che con l’inno nazionale deve ricordarci molte cose assieme. Domandiamo troppo? Che nessuno parli per cortesia delle ristrettezze del bilancio comunale, niente beffe.
Ma perché lo domandiamo? Non certo per un vano amore dei fasti o delle sfilate da piazza Rossa ma perché devono esistere il decoro e la dignità delle istituzioni, per rispetto di se stesse e per rispetto dello spirito delle celebrazioni. Solo così si può cercare di emarginare chi aspetta queste occasioni come date sicure per un agguato che di politico ormai non ha quasi più nulla ed evitare i fischi degli intolleranti. C’è poi un’altra considerazione da fare, ed è il confronto della comunicazione. Oggi, nel bene e nel male, il pubblico si è abituato a un modo di comunicare con una componente spettacolare che quasi travolge il senso stesso della circostanza: non possiamo dimenticarlo né tirarci indietro. Un’ultima considerazione: gli oratori e le orazioni. Sono due aspetti della manifestazione che vanno assieme. Oltre agli oratori istituzionali – del contenuto dei loro discorsi parleremo in seguito – ci sono gli oratori occasionali come i pochi superstiti della Resistenza o dei campi di sterminio; non sono oratori abituati al pubblico ma sempre testimonianze fisiche: non basta sentire la loro voce, bisogna vederne i volti, bisogna vedervi passare le ombre della commozione e del ricordo, bisogna che mostrino ai giovani se stessi. Tra qualche anno di loro non avremo più nessuno in mezzo a noi ma a quel momento sarà giusto vedere il volto dei giovani, sempre più numerosi, che hanno accettato il testimone in questa staffetta della memoria.
Ecco perché ci vogliono i grandi schermi: nemmeno un attore professionista ormai riesce a trasmetterci il patos di quel che dice con la sola voce, ne abbiamo perso la capacità. Quanto al contenuto delle orazioni ufficiali anche qui dobbiamo dire qualcosa: è difficile saperle fare senza scadere nelle cosiddette parole di circostanza o deviare sui problemi politici del momento del tutto a sproposito. C’è un recinto entro il quale si può stare, un recinto largo che dà spazio a tutti: parlare di quello che è rimasto dentro di noi, se è rimasto e perché. Nell’intervista a questo giornale concessa da Oscar Luigi Scalfaro ci ha detto che il 25 aprile e i suoi valori li possiamo testimoniare tutti i giorni con il nostro comportamento. Anche questo è nel recinto.
Luca Beltrami Gadola