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Martedì, 30 Settembre, 2008 - 09:59

ERA IL SOGNO AMERICANO

ERA IL SOGNO AMERICANO
Roberto Silvestri
Muore a 83 anni, dopo un altro combattimento perduto, contro il cancro questa volta, Paul Newman, l'«ultimo divo». Occhi azzurri, sguardo aperto.Spavaldo e istrione, dall'ironia misteriosa che gli angoli della bocca maneggiano come un teramin. Un coraggio fin troppo esibito, eppure di discrezione quasi imbarazzante che suggerisce strane commistioni sessuali. Fu così il suo americano in oltre 60 film dal successo travolgente, come le automobili da corsa che ha guidato per tutta la vita: Nick mano fredda , Butch Cassidy, La stangata... Anche se la sua forte ostilità ai riti di Hollywood gli fruttarono un solo Oscar ( Il colore dei soldi ), grazie a Martin Scorsese (oltre a quello, rituale e tardivo, alla carriera alla metà degli anni 80). Newman è stato il pezzo più resistente e combattente di una generazione di attori e militanti «liberal» che, tra gli anni '50 e '60, fu vittima, non indocile, della fine del sogno americano e del ricambio generazionale di una Hollywood che aveva usato la crociata anticomunista anche per abbassare i costi di produzione (e dunque annientare la generazione rooseveltiana troppo esosa). Ma anche i nuovi divi furono tutt'altro che servi «flessibili». Paul Newman, dopo Berkeley e gli studenti assassinati della Kent University, fece campagna elettorale per McGovern; dopo Nixon con Carter, e oggi era con Obama. Individualisti, ma democratici, jeffersoniani e «controculturali», tra guerra fredda e sinistri segnali di un maccartismo ostinato, i suoi colleghi se ne andarono via, quasi tutti, giovanissimi, Marilyn e Dorothy Dandridge, Jimmy Dean e Monty Clift, Steve McQueen e Susan Hayward... Erano i kennediani di Hollywood, il sintomo di un altro possibile «nuovo patto». Persero la vita subito, ma il cinema lo cambiarono, irreversibilmente. «Ultimo divo», Newman, ha proseguito la loro battaglia anche perché lui, e sua moglie Joanne Woodward, non sono mai stati tipi da Hollywood . Diventato un adorato sex symbol negli anni in cui la televisione stava schiacciando di manierismo lo Studio System, divise con Marlon Brando il compito di riportare al cinema i conflitti della vita e della strada. Fu proprio un aspro dramma, di taglio quasi neorealista, a lanciarlo, Lassù qualcuno mi ama , nel 1956. 
Attore «molto, molto sensibile», parola di Al Pacino, Newman preferì il cinema all'economia, dopo l'università, perché vuole andarsene di casa il prima possibile. Manca insomma di quella «forza interiore indistruttibile e fatale» che in Marlon Brando sarà devastante. Ma dopo l'orrore del suo esordio , capace di buttare al vento tutto il prestigio conquistato off Broadway , Calice d'argento (giurerà e manterrà la promessa di non travestirsi mai più da Jack Smith), Newman collezionerà una dozzina di film antisistemici, diretti da ex osservati a vista del maccartismo come Wise, Ritt, Brooks e Penn ( Billy Kidd , Furia selvaggia), che porteranno sul lettino di Freud l'intera mitologia Usa, dal bandito primordiale d'America al campione sportivo, fino al maschilismo (fatto a pezzi nel dramma sudista di Tennesse Williams La gatta sul tetto che scotta ) che deve aver decostruito, passo dopo passo, al fianco della sua seconda moglie, l'attrice di bravura mozzafiato Joanne Woodward, che sarà spesso la sua partner, anche cinematografica. Coppia inossidabile e impenetrabile, come un tempo era stata solo quella tra Joel McCrea e Frances Dee, a prova di cacciatori di gossip, come Hedda Hopper. Sempre disinteressato al carnevale merceologico che è collegato a Hollywood, troppo indipendente, autonomo e senza alcun desiderio di ottimizzare le sue performance, Newman lavora molto. Dirà a Al Pacino: «se interpretassi solo i film che mi piacciono ne farei uno ogni 5 anni». Ma, dal 1982, Newman è anche autosufficiente economicamente perché ha fondato la Newman's Own e attraverso gli alimenti e i condimenti può fare beneficienza (bambini, tossicodipendenti, i malati di aids...) e finanziare giornali e organizzazione della sinistra progressista. Dal 2006, per esempio, premia chi più coraggiosamente difende il «primo emendamento» della costituzione, relativo alla libertà di espressione, di stampa e di culto, con 20 mila dollari all'anno. Come regista sarà l'autore di opere di ricerca e problematiche, mai «standard», polisenso, dal corto On the harmfulness of tobacco ai lunghi Rachel Rachel ( in Italia La prima volta di Jennifer , '68) a Never give a inch ' ('71), cioè Sfida senza paura , che forse è il suo film più importante. Racconta la storia conflittuale e drammatica di una famiglia di boscaioli, dall'indomito spirito Whitman e Thoreau, individualisti drastici, ma, come i piloti Anpac, capaci di sfidare i sindacati, in occasione di uno sciopero mal congeniato, aggiungendo e non togliendo contenuti sociali e emozionali «alti». Non a caso li guida il patriarca, un magnifico Henry Fonda. Tre le altre regie successive Gli effetti dei raggi gamma sul comportamento delle margherite (1972), Harry & son (1984), dedicato al figlio morto di overdose, e Zoo di vetro (1987), sempre da Tennesse Williams. Cominciò quando, forse per polemizzare con i diktat delle majors, molte star ppassarono alla regia provvisoriamente (Brando, Gene Kelly, Charlton Heston, Burt Reynolds, James Caan), tranne Redford e Eastwood. Tra i successi indimenticabili di Paul Newman primo periodo, quello del «bello e dannato», del teppista che ha dentro tanta passione e amore da non sprecare in carcere, anche Exodus' di Otto Preminger (1961), film schierato a favore della formazione dello stato di Israele, Lo spaccone di Martin Ritt, dove il suo virtuosismo raggiunge l'apice (seconda candidatura all'Academy Award) e La dolce ala della giovinezza di Brooks, da Faulkner (che conquista Cannes). Sono i capolavori della cosidetta cool Hollywood, che scodellò film di glaciale, manieristica bellezza (e spesso veleno al botteghino) perché, come nel jazz dei tardi anni 50, lo studio system dava sì forma a un cinema mai prima tanto fluido, perfetto, moderno e glamour, di ogni genere e tipo, e assistito da uno sfarzo tecnologico imbattibile, ma non riusciva più a afferrare lo spirito impazzito dei tempi (di conflitto atomico). L'immediatezza della tv, il kennedysmo che sembrò sbaragliare il maccartismo, la sopravvivenza di un arcaico codice di autocensura a Hollywood, l'insorgenza femminista e le esplosioni di soggettività desiderante polietnica avevano frastornato e portato il cinema Usa al ko tecnico, fino a scappare sul Tevere per risparmiare ( Cleopatra ) o far propaganda anticomunista in stil novo ( Il sipario strappato di Hitchcock, 1966). Il consumo più vitale era però entrato in diaspora e indicava nell'esodo, nell'underground, nelle produzioni e nei consumi indipendenti nel «sex drugs and rock'n roll» la strada maestra da seguire. Paul Newman fu il perfetto traghettatore di quelle pulsioni, riportandole da fuori a dentro Hollywood, anzi nella «new Hollywood», sottoponendo tutti i generi a revisione e modernizzazione necessaria, dal western, ( L'oltraggio, Hombre ) al genere sportivo ( Indianapolis pista infernale di Goldstone), al catastrofico ( L'inferno di cristallo ). Il sodalizio con Stuart Rosenberg, regista formatosi nei drammi tv, alla scuola neorealista di Paddy Chayefski, da Nick Mano fredda a Un uomo oggi a Per una manciata di soldi è stata intensa e controcorrente quanto quello con Jack Smight, John Huston ( L'uomo dai 7 capestri , L'agente speciale Mackintosh ), Robert Altman ( Buffalo Bill, Quintet) . L'interno stato maggiore del cinema progressista ha poi lavorato con lui: Pollack, Lumet, Scorsese, Joffè, Ivory, i Coen, Robert Benton fino a Sam Mendes, astro nascente inglese che viene dal palcoscenico, Era mio padre (2002).

Il Manifesto
29 settembre 2008