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Venerdì, 6 Giugno, 2008 - 10:36

La difficile scelta di Mr. Obama

La difficile scelta di Mr. Obama
Marco d'Eramo
da Il Manifesto del 5 giugno 2008

Se a novembre Barack Obama non vincesse le elezioni, sarebbe una tragedia per tutti noi. Non che si possano riporre speranze vertiginose nel senatore dell'Illinois. Ma una sua sconfitta significherebbe che la democrazia parlamentare occidentale non è in grado di sanzionare nemmeno un'amministrazione, quella di George W. Bush, che in otto anni ha commesso innominabili abomini: un milione di iracheni e 4.500 soldati Usa morti per nulla, le garanzie costituzionali gettate nelle discariche, l'habeas corpus abrogato, la tortura legittimata, l'ambiente devastato, la gestione cinica dell'economia, i regali ai ricchi, l'inflazione mondiale, il prezzo delle derrate alimentari, tutti fenomeni riconducibili alle politiche dell'ineffabile coppia Bush-Cheney.
Però la strada si presenta ardua per Obama. Soprattutto, sarà necessario per lui tornare a fare politica, qualcosa cioè che nell'epica battaglia con Hillary Clinton era scomparso. Finora la dimensione identitaria ha offuscato gli argomenti che stanno a cuore agli elettori: la propria vita, il proprio benessere, un ragionevole accordo con la propria coscienza. Il titanico scontro tra «la donna» e «il nero» nascondeva una più prosaica verità: su tutti i problemi concreti, le differenze tra i due sono marginali e spesso le loro posizioni indistinguibili. Paradossalmente, è stato molto più politico il processo di selezione repubblicano che ha scelto in McCain una sorta di anti-Bush di destra e che ha puntato a cambiare le gerarchie del proprio blocco sociale riducendo la prominenza del fattore religioso.
In campo democratico invece si è parlato finora di quel che i sociologi chiamano «gruppi primari» e i sei mesi di primarie non hanno fatto altro che evidenziare le molteplici fratture che spaccano il blocco sociale democratico secondo linee etniche, razziali, generazionali, di classe: ispanici, bianchi poveri e incolti, donne bianche e anziani dal lato di Hillary; bianchi agiati, neri, giovani, strati culturalizzati per Barack. La riprova più paradossale si è avuta pochi giorni fa a Portorico, la cui popolazione è a stragrande maggioranza costituita da ispanici neri: ebbene, nelle primarie, i portoricani hanno deciso di essere ispanici con Hillary contro il nero Obama.
È per queste fratture che il silenzio di Hillary Clinton sulle proprie intenzioni incombe grave sui democratici. In fondo la senatrice di New York ha ottenuto più (o altrettanti) voti popolari di Obama, ha dalla sua tutti i grandi stati (New York, California, Massachusetts, Texas) e ha conquistato gli stati oscillanti, quelli che potrebbero dare la vittoria a novembre (Ohio, Florida, New Mexico, West Virginia). Insomma Hillary rappresenta metà del partito non solo per genere o per consenso popolare, ma per struttura sociale.
Obama si trova perciò in una tenaglia. Se non imbarca Hillary nel proprio ticket, si aliena metà dei propri probabili elettori e il 4 novembre sarà una gara a chi subisce meno astensioni, di bigotti per John McCain, di donne, ispanici e bianchi poveri razzisti per Obama. Ma se imbarca Hillary come vicepresidente, Obama fa il pieno dell'ostilità repubblicana per un nero e per una donna, ottenendo «l'intersezione del consenso e l'unione del dissenso». Ecco perché la risposta che Obama e la leadership democratica debbono dare al problema Hillary non può essere funzionale, ma deve essere politica, perché politico è il problema.