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Giovedì, 3 Aprile, 2008 - 11:41

Il dopo Bolzaneto, una vergogna senza limiti

il commento
Il dopo Bolzaneto, una vergogna senza limiti
Giancarlo Ferrero*
da Il Manifesto del 1 aprile 2008

In uno Stato effettivamente democratico e di diritto nessuno si sarebbe stupito che i suoi rappresentanti in giudizio avessero presentato le scuse alle parti offese per i fatti del G8. Poiché peraltro non siamo uno Stato effettivamente democratico e di diritto (nonostante la bellissima Costituzione di cui facciamo sfoggio), le parole di scusa pronunciate dai due giovani avvocati dello Stato in udienza vanno sottolineate ed applaudite perché fanno ammenda di tanta cattiva lettura istituzionale che ha accompagnato il caso. Dovrebbe essere non solo logico ma ovvio che l'Avvocatura dello Stato, per il suo nome ed il suo ruolo, abbia il compito esclusivo di tutelare sempre i pubblici interessi, al cui vertice si trovano congiunti i principi inderogabili della legalità e della giustizia.
Purtroppo non sempre è così, per molte ragioni contingenti tra cui l'eccesso di lavoro rutinario, ma anche per una insufficiente cultura democratica, per una tendenza a prediligere il sostantivo alla sua specificazione, il denaro al servizio. Un grave errore istituzionale perché l'Avvocatura dello Stato in tanto ha un senso in quanto contribuisce a garantire la legittimità dei vari apparati della Repubblica, ponendosi in una posizione di attenzione, ma di grande autonomia tecnica verso la politica e la pubblica amministrazione. Sotto questo profilo costituisce un grave vulnus l'obbligo introdotto surrettiziamente con una legge del 1991, riguardante gli organici, di condizionare la costituzione nei giudizi penali ad una apposita autorizzazione della Presidenza del consiglio dei ministri.
In tal modo l'Avvocatura dello Stato perde la sua autonomia e viene sottoposta ad una contingente valutazione prettamente politica che ne offende dignità e ruolo, prestandosi a molte strumentalizzazioni. Si spiega così la sua assenza nel processo di Genova come parte offesa nei confronti degli imputati, assenza non giustificata dalla sua citazione come responsabile civile, tra l'altro contestata proprio perché il comportamento degli agenti infedeli non può essere considerata espressione del potere statuale.
L'aspetto processuale da ultimo indicato è solo la punta di un iceberg dello scandalo politico-istituzionale che ha accompagnato l'intera vicenda. Già le modalità dei fatti commessi in quel terribile giorno sono tali da destare un grave allarme: per ore le persone, i loro diritti, la pubblica funzione sono state in balia di un nutrito gruppuscolo di scalmanati violenti senza che nessuno dei responsabili del settore pubblico intervenisse per interrompere, come era loro dovere, i reati in atto (impossibile che non ne fossero a conoscenza).
Subito dopo, presa visione in modo inconfutabile di quanto era accaduto, gli organi istituzionali hanno mantenuto una riservatezza più vicina al silenzio omertoso che alla prudenza esasperata. La classe politica nel suo insieme ha rivelato un distacco ed un'apatia morale degne dei peggiori periodi del più brutto passato ed ha sostanzialmente mantenuto per anni questo vergognoso atteggiamento. Anche il sindacato di polizia, che pure conta al suo interno dei galantuomini, ha preso le distanze chiudendosi in uno sdegnoso silenzio che ha danneggiato i suoi assistiti onesti.
Soltanto la magistratura, anche se si sarebbe auspicata una maggiore solerzia, ha mantenuto alto il prestigio della sua funzione, rivelandosi l'unica effettiva garante dei diritti fondamentali dell'uomo e della legalità dello Stato democratico. L'indagine condotta dalla procura genovese ha incontrato notevoli difficoltà, a partire, da quanto sembra, dalla «cauta» partecipazione del procuratore dirigente alla modesta ed ambigua collaborazione della polizia, dall'insicura autenticità dei mezzi probatori raccolti al numero e reperibilità dei testimoni ed alle non parsimoniose richieste degli avvocati difensori.
A legare le mani dei magistrati incombe dall'alto l'assenza dal nostro codice penale del reato di tortura (certamente realizzato in tutti i suoi classici estremi in quel sciagurato giorno) oggetto di specifici richiami della comunità europea, ben presente nei trattati internazionali. Il parlamento italiano ha avuto occasione di occuparsene, con una calma che ha finito con il perdersi nei polverosi meandri del Senato prima di essere licenziato nel testo definitivo.
Così i rivoltanti fatti commessi hanno trovato spazio nei più modesti reati di abusi d'ufficio e lesioni personali, per i quali la pena è non solo molto contenuta, ma destinata a cadere sotto la mannaia della solita prescrizione, trasformata in condono permanente.
La vergogna per il nostro devastato stato non conosce limiti: gli imputati non sconteranno neppure l'esigua pena, i danni provocati ai malcapitati ragazzi saranno probabilmente pagati dallo Stato (che faticherà persino a farseli in parte rimborsare con l'azione di rivalsa nei confronti dei colpevoli), mentre i danni alla sua immagine ed al buon nome della polizia si perderanno lungo le strade delle buone intenzioni di cui è lastricato, con l'inferno, anche il nostro paese.
Di procedimenti disciplinari non se ne è sentito parlare, se non vagamente ed in modo improprio dal ministro Amato (cui siamo creditori di una risposta dopo il nostro, recente intervento su l'Unità), contrariamente alle non poche promozioni effettuate.
Ora si è appreso di una richiesta di rinvio a giudizio dello stesso capo della polizia, una notizia-bomba che ci auguriamo, nell'interesse di tutti, venga presto disinnescata. La sua eventuale deflagrazione sconvolgerebbe la credibilità delle istituzioni ed aprirebbe le porte al più devastante scetticismo sul cui terreno tanti cittadini hanno purtroppo abbandonato i loro ideali e le loro aspettative democratiche.
* giurista