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.: Il Blog di Donatella Elvira Camatta
Lunedì, 15 Maggio, 2006 - 12:23

Antisemitismo, nessuna ambiguità


“Antisemitismo” è espressione generica. Designa il razzismo verso gli ebrei ma, etimologicamente parlando, semiti sono anche gli arabi in quanto “discendenti di Sem” (uno dei figli di Noè il quale, secondo la Bibbia, si stanziò in quella zona oggi chiamata Medio Oriente).

Riguardo agli ebrei nello specifico, si dovrebbe parlare, più precisamente, di anti-giudaismo; in ogni caso, accettiamo la prima definizione, e non solo perché di uso comune. È infatti esistito per molto tempo, presso alcuni cattolici e nella stessa Chiesa, un accentuato anti-giudaismo, esecrabile sia di per sé, sia perché ha impedito ai cristiani una più convinta resistenza alla barbarie nazista; tuttavia esso conduceva la sua polemica da un punto di vista strettamente religioso (gli ebrei erano disprezzati come popolo “deicida” che si ostinava a non convertirsi al Vangelo) e gli era completamente estraneo il concetto di razza, termine, quest’ultimo, elaborato “scientificamente” in ambienti laici intrisi di Positivismo e Darwinismo sociale. Antisemitismo, quindi. Che assume mille forme e sembra rinascere dalle sue stesse ceneri. Per questo motivo è stata istituita la Giornata della Memoria che, a partire dal 2000, viene celebrata il 27 gennaio di ogni anno “per non dimenticare”.

Qualcuno, forse non proprio in buona fede, comincia a obiettare che l’appuntamento rischia di diventare una celebrazione retorica (detto per inciso, questo qualcuno non si sogna di criticare la parata delle Forze Armate che, da molti anni, esalta la retorica delle armi…); indubbiamente il rischio esiste, ma soltanto se consideriamo la Shoah un ricordo del passato, senza nessun legame con la situazione attuale. Sono pertanto fondamentali quelle iniziative che, in occasione della Giornata, non si limitano a parlare dello sterminio degli ebrei, ma rievocano persecuzioni che, pur perpetrate dai nazisti stessi, restano a tutt’oggi poco conosciute: quelle contro gli oppositori politici e religiosi, i disabili, gli “asociali” (chi sa dirmi cosa significhi questa parola, alzi la mano!), i polacchi, i Testimoni di Geova, gli zingari, gli omosessuali. Ci si accorgerà facilmente che molti di questi gruppi subiscono a tutt’oggi discriminazioni e violenze, spesso brutali. Ritengo comunque che non si debba mai perdere di vista la specificità ebraica, o si corre il serio pericolo di non comprendere il significato profondo dell’Olocausto. Dagli ebrei il razzismo ha sempre fatto discendere tutto il male del mondo e gli ebrei sono stati considerati indegni di esistere non per loro comportamenti o convinzioni, ma per il fatto stesso d’esser nati. In altre parole: è incontestabile che l’antisemita odi pure gli arabi come gli africani, gli indiani, i cinesi e, in genere, tutti i popoli “non ariani”, così come le “categorie” di cui sopra; ma è altrettanto incontestabile che, al vertice della sua piramide di odio stiano sempre e solo gli ebrei, summa di tutte le “devianze” appena ricordate.

Dimenticando l’unicità ebraica e le sue motivazioni storico-psicologiche, si può giungere ad affermare che gli ebrei sono stati perseguitati come altri diversi, presenti e passati (streghe, eretici…); che, pertanto, la loro sciagura è stata, per dir così, “normale”, pur se condannabile. È la posizione speculare a quella dei cosiddetti storici revisionisti, che negano la Shoah affermando che i campi di concentramento sono sempre esistiti in tutte le guerre. Si tratta di nazisti camuffati alla meno peggio, che mentono sapendo di mentire; ma sta prendendo piede, subdolamente, un’altra forma di antisemitismo che, pur mossa da intenti apparentemente “nobili”, lambisce proprio alcuni ambienti che, per la loro storia e i loro valori, dovrebbero costituire l’opposto di ogni discriminazione: mi riferisco al giudizio su Israele espresso da certe frange progressiste, e ripenso agli incresciosi episodi del recentissimo passato, dall’incendio di bandiere israeliane da parte di alcuni autonomi alla vignetta di “Liberazione” del 13 maggio 2006, che ha provocato una giusta indignazione presso gli ebrei italiani.

In esse sopravvive, talora si manifesta con violenza, un terzo-mondismo mitico, di matrice post-sessantottesca, che vede nei popoli del Medio Oriente, segnatamente in quello palestinese, i simboli dei popoli oppressi, dei perseguitati per la loro diversità proprio come lo furono gli ebrei di un tempo, mentre gli israeliani di oggi sono visti come spietati colonizzatori, capitalisti, teste d’ariete degli interessi statunitensi nell’area. E ciò è stato spesso vero, lo è ancora oggi; gli è che dalla condanna del comportamento sciagurato di certi governanti israeliani taluni passano alla condanna di Israele nel suo complesso, e automaticamente alla condanna di buona parte degli ebrei del mondo, se non altro perché, a differenza di anni fa, oggi questi ultimi sostengono il sionismo. Anzi il sionismo, il movimento fondato alla fine dell’Ottocento dall’ungherese Theodor Herzl, viene considerato tout court un fascismo teocratico, dimenticando che esso nacque come reazione di difesa alla montante marea anti-ebraica che stava dilagando in Europa. Certo le parole di Herzl verso gli arabi – specie se decontestualizzate – sono oggi del tutto inaccettabili, come inaccettabile è stato l’abuso che alcuni dirigenti israeliani ne hanno fatto per giustificare le occupazioni e gli eccidi del ’67,’82 e 2000, tanto per citare gli episodi più gravi. Ma sostenere, come da più parti “di sinistra” si tende a fare, che gli ebrei in Palestina sono stati colonizzatori al pari dei Francesi in Algeria o degli Inglesi in India è un’idiozia colossale.

Perché, se i crimini dei governanti vanno stigmatizzati (tenendo anche presente la pressione sotto cui da quelle parti costantemente si vive), non si può nemmeno tacere sulle sofferenze che i governi arabi hanno imposto ai loro concittadini ebrei prima della costruzione d’Israele; che molti (anche in ambito non arabo, ma fondamentalista: si pensi a Khomeini) negli anni Quaranta erano filo-tedeschi, compreso il Gran Muftì di Gerusalemme amico personale di Mussolini; che hanno risposto con la guerra e il terrorismo a ripetute profferte di coabitazione pacifica (anni 1946-47); che Sadat ha pagato con la vita la sua rinuncia alla guerra con Israele; che l’odio contro il nemico “sionista” è insegnato in tutte le scuole arabe, e non solo religiose; che il “laico” Arafat, fino a metà degli anni ’80, si pronunciava per la distruzione dello Stato ebraico e che ha appoggiato Saddam nella prima Guerra del Golfo…

È storia poco nota, ed è comprensibile la reticenza di questi progressisti a parlarne perché, oggi, le popolazioni arabe sono a loro volta esposte a una sistematica campagna di odio e diffamazione da parte di Bush e paesi satelliti. Gli umanista sempre si sono pronunciati per una soluzione del conflitto israelo-palestinese che tenesse conto degli interessi di entrambi i popoli e sempre hanno dato risalto alle iniziative di pace nate in ambienti non solo europei, ma anche e soprattutto autoctoni. Chi scrive è personalmente solidale anche con il popolo palestinese, che giustamente invoca da anni uno Stato suo. Ma l’onestà intellettuale m’impedisce il silenzio davanti a banalizzazioni che, se poi provengono dai circoli più vivi e pulsanti del paese, rischiano di ottundere persino le coscienze più sensibili.

Daniela Tuscano