.: Discussione: Vision 2010

Opzioni visualizzazione messaggi

Seleziona la visualizzazione dei messaggi che preferisci e premi "Aggiorna visualizzazione" per attivare i cambiamenti.
:Info Utente:

Cristiana Fiamingo

:Info Messaggio:
Punteggio: 0
Num.Votanti: 0
Quanto condividi questo messaggio?





Inserito da Cristiana Fiamingo il 4 Ago 2010 - 08:50
Discussione precedente ยท Discussione successiva

Questa lettera è destinata ai miei Concittadini. È, certo, un’opinione, ma anche una prospettiva (è in voga, nel Continente di cui mi occupo, l'Africa, adottare visioni strategiche di lungo periodo, che chiamano "Vision", appunto) che nasce dal desiderio di coinvolgere e coscientizzare chi vuole migliorare questa società in cui siamo nati e lasciarla un po’ migliore di come l’abbiamo trovata, facendoci attori partecipi delle riforme in atto a partire da una, in particolare, quella educativa, proprio mentre è in discussione il II DDL Gelmini, per l’università. Sono un’accademica, certo, particolarmente coinvolta da quanto si sta dibattendo, ma chiedo ascolto a tutti perché è in gioco l'interesse di tutti... dunque:
"Concittadini... Italiani..."
il Presidente Napolitano, condannata la corruzione, si rimette agli anticorpi di questa Cittadinanza. Restando in tema di virulenza, i nostri  anticorpi sembrano piuttosto aver sviluppato, dopo lungo esercizio, un adattamento senza precedenti dell'organismo all’"ospite" salito al potere per esercitare "dominio": mentre vecchie mafie vengono distrutte dal potere istituzionale - e proprio mentre quelle stesse magnifiche operazioni di pulizia e progressive avvengono - i nuovi squali si garantiscono impunità a suon di "fiducia", brandendo parole di libertà... a garanzia di delinquenza. 
Nonostante l’indignazione non manchi, questa sembra appiattirsi sfogandosi in cortei viola, pur degnissimi convegni, manciate di coraggiosi progetti sociali e rosari di caratteri, non dissimili da questo, sul web, mentre le falene della politica, accecate dal potere cui mirano a qualunque costo, impegnate a sfuggire i colpi del retino, sfarfallano caotiche sui bisogni reali di questo paese. Chiamate a raccolta di nuova, sana ecumene e preghiere non bastano se non si punta ad una riforma sistemica, strutturale profonda che muova dal comparto della progettualità sociale: quello educativo. La malattia di cui soffre la canalizzazione  del dissenso in questo Paese - e non solo in questo, quale sintomatico, globale “paradosso della democrazia” - che non trova più sponda nei partiti politici, non rende meno politiche le nostre istanze dal basso. Nemmeno la cosiddetta ‘opposizione’ si rende conto di quanto abbisogni il nostro Paese di una metodologia integrata e organica nell’affrontare la riforma del sistema educativo nel suo insieme: il declamato approccio del Long Life Learning, dovrebbe trovare legittimazione politica almeno nella sua estrinsecazione istituzionale, tra istruzione primaria, secondaria, superiore e di formazione universitaria, assurdamente dis-integrate per evidenti ragioni di dominio. Eppure, in qualsiasi contesto, la riforma dell’istruzione pubblica (coesistente alla sua declinazione minoritaria privata) è la visione di lungo periodo di un governo per la società che guida e della società per se stessa. Forse non è tardi. Le componenti sociali, magari attraverso l’opposizione, operando in un suo rigurgito di coscienza nelle bracciate per stare a galla, devono portare ad una compartecipazione attiva la Cittadinanza nel realizzare una riforma sostenibile, attraverso l’iter legislativo. La responsabilità è di tutti. Che sia approvata una buona o una cattiva riforma, le sue conseguenze e i suoi riflessi impostano la Nazione. Nessuno potrà poi sentirsi assolto.
Il 29 luglio è stato approvato in Senato il DDL Gelmini (DDL 1905) ulteriormente emendato e, quale studiosa che della normatività sociale indotta da politiche educative se ne intende, perché da sempre se ne occupa e di ciò vive (il baricentro spostato sui modelli di stato di periferia coloniale non vi inganni), vorrei trovare un modo per appellarmi alla sensibilità civica e, quindi, politica dei miei concittadini e dei politici fra loro, circa l’opportunità reale che, pur creata, si sta perdendo.
Ogni Nazione ha proprie esigenze culturali, politiche ed economiche e difetti propri, storicamente consolidati, che una sana riforma educativa può sanare. Quindi, vi prego, non usate indifferenza, non rimanete invischiati nella parcellizzazione di dominio e nei problemi quotidiani che frammentano la visione d’insieme: che abbiate figli o no, che abbiate a che fare col settore o meno, tutti voi la “scuola” l’avete vissuta. Chi più chi meno ne ha esperito difetti e pregi e riconoscerete come molte delle esperienze più fortunate siano legate alla professione di speranza costruttiva di singoli docenti. Ce ne sono sempre stati, ce ne sono e sempre ce ne saranno, ma non van lasciati soli: occupatevene! Basta piegarsi al divide et impera, ma si consideri piuttosto in modo positivo come tutto il comparto educativo appartenga nuovamente allo stesso Ministero, mentre, in modo schizoide, rispetto ad una evidente volontà di coordinamento, da molte, troppe legislature, le politiche governative colpiscono tutte le forme di istruzione e formazione pubblica, separatamente e sistematicamente obbedendo alla formula neoliberale che anima un movimento insindacabilmente globale, volto a creare, da un lato, debitori/consumatori passivi e non personalità coscienti, vigili e animate da spirito critico attraverso la conoscenza e la cultura e dall’altro, in una riproduzione strutturale del potere che controlli il flusso di conoscenze, in opere di trasmissione piuttosto che di comunicazione – pur nel flusso della retorica della comunicazione – forme di dominio autoritario, che credevamo incompatibili con il culto della “libertà” sin qui maturato.
No, non è complottismo, ma una costernata constatazione di una strategia inerziale cui questa debole ‘opposizione’ contribuisce, non opponendosi, al punto da farsene trampolino.
Si tenti di cogliere l’insieme, senza lasciarsi offuscare da "gonfi" slogan che sproloquiano di “governance” e “meritocrazia”, che nessun senso hanno se svincolati da una cultura etica della trasparenza e del migliorare al massimo delle proprie capacità in un impegno sociale, politico ed economico altresì, volto a cogliere tali capacità per coltivarle e farne patrimonio produttivo. Agganciarsi a questa richiesta prepotente, che viene dal basso, senza rendere sostenibile una riforma è il più vuoto, ma anche il più dannoso e deleterio esercizio della politica che si possa immaginare, perché svuota di senso ogni speranza salvifica, mentre mortifica ciò che sopravvive d’un senso d’appartenenza alla Cittadinanza. È sbagliato opporsi parando i singoli colpi, perdendo di vista la strategia. Occorre produrre una riforma educativa sostanziale, organica, moderna, sensibile al cambiamento globale, ma soprattutto al progetto di una società sostenibile, che, partendo dal "Cittadino-studente formato", obbediente in primis ai bisogni del Paese, a ritroso, ne progetti il percorso formativo ottimale,  ma mantenendo vivi i desideri che hanno garantito approdo alle conquiste storiche reali della Nazione nel contesto internazionale, aspirando ad una libertà di scelta consapevole verso il "migliore dei mondi possibili" a fronte di risorse limitate, proprie altresì, ricusando la mera garanzia all’accesso ai beni di consumo... oggi, sempre meno "propri". Insomma forte di una cultura non vissuta come “bene di lusso” complementare alla formazione, ma come insieme di strumenti per interpretare il presente e adottare le migliori soluzioni per affrontarne la complessità e le crisi.
Eppure a fronte di questa evoluzione, la riforma che emerge prevede una riduzione costante dei finanziamenti all’istruzione di grado inferiore, destina una minima percentuale del Fondo per il Funzionamento Ordinario di premialità per l’Università, tagliandolo preventivamente a colpi di mannaia e non prevede alcun finanziamento per la ricerca e nemmeno per l’aggiornamento degli insegnanti attraverso l’Università - che, grazie allo sviluppo della ricerca, dovrebbe essere il luogo preposto alla riproduzione di una docenza efficiente e innovativa - mentre inibisce, attraverso il blocco del turn-over, l’avvicendarsi delle generazioni.
Come una riforma siffatta possa promuovere merito o good governance è mistero.
Addirittura alla maggioranza sfugge il disegno inerziale di cui si fa interprete: l’on. Valditara stesso, che il DDL 1905 ha elaborato (e in gran parte emendato rispetto alla prima, del tutto inaccettabile, versione), ha ammesso l’insostenibilità della riforma. Tale dichiarazione tradisce l’evidente sequenzialità non casuale che dalla “Finanziaria” L.133/2008, si snoda attraverso “Gelmini Atto I” (L.1/2009) e Atto II (DDL 1905/2010) nella ricorrente formula - “senza alcun aggravio per questa amministrazione” – che, oltre ad essere incostituzionale (l’art. 81 della Costituzione italiana prevede che ogni proposta di legge sia garantita da copertura finanziaria), rende l’art. 16 della L.133 (che promuove l'istituzione di fondazioni universitarie) uno sbocco inevitabile, peraltro, già intrapreso da alcuni atenei; mentre la manovra DL 78/2010 dà il colpo di grazia, colpendo anche gli individui e, in modo macroscopico, il comparto pubblico e i giovani ricercatori, in particolare.
Ciò detto, se questa riforma s’ha da fare, se si deve per forza affrontare una progettualità a mosaico, è innegabile che vi sia qualcosa di buono in essa. Quella dell’abilitazione nazionale è una novità imprescindibile nella promozione del merito e di cui si richiede immediata applicazione, approntando tutti i meccanismi di controllo umanamente possibili. I concorsi in questo paese (così come gli appalti), paradossalmente, sono fonte di riproduzione clientelare e di “interdipendenza debitoria” nella assoluta impunità e deresponsabilizzazione dei “pupari”. Certo, sono resi assolutamente insostenibili finanziariamente dal DDL 1905, che non rispettando con protervia – rispetto alla prima versione – il citato art. 81 della Costituzione, non prevede i fondi per l’accensione né dell’abilitazione, né dei concorsi interni, contribuendo al blocco delle assunzioni, a fianco del blocco del turn-over e a una politica accademica che tradizionalmente ritarda i pensionamenti, mentre in Atenei, come quello cui appartiene la scrivente, si stabiliscono regole che prevedono la possibilità di affidare un corso principale a docenti ormai in pensione. Se così si risponde alle esigenze dell’allungamento delle aspettative di vita, della sua qualità e dei riflessi di questa sul cerebro, si inibiscono sostanzialmente le istanze di rinnovamento del “parco intellettuale”.
Ancora, nella recente versione del DDL, mancano quei paletti legislativi che mettano al riparo da abusi di potere che possono consumarsi nelle “autonomie” universitarie e che evitino il perpetuarsi della cultura egemonica delle appartenenze, endemica di questo Stato. Qualora ciò avvenisse proprio a partire dalla compagine intellettuale che forma i quadri della Nazione, potrebbe essere buon inizio per tentare di assestare ogni comparto pubblico in questo Paese, che abbisogna di una nuova etica. Forse ricorderete come questa riforma invocasse la necessità di limitare lo strapotere “baronale”, che, a differenza di quanto si possa credere, solo in casi rari sfocia in stipendi favolosi, o giri d’affari miliardari: nella maggior parte dei casi è management parcellizzante di riproduzione di clientele, garantito dall’assenza di responsabilità diretta su fondi pubblici ma, soprattutto, sugli investimenti in capitale umano. Il “potere” degli ordinari si esplica nella loro funzione di "gate-keepers": nella determinazione dei destini dei giovani, selezionandoli per lo più, certo, in base al loro effettivo valore, ma pur sempre riconosciuto da singoli individui, talvolta adottando una serie di criteri legati anche alla “disponibilità” a soddisfare determinate “regole di ingaggio”. Spesso, dopo anni di esercizio sottoretribuito di docenza, nel precariato, viene acceso per loro un concorso nell'aspettativa che tale contributo continui nell'ufficialità. Il concorso si basa su squilibri di potere che esulano dalla graduatoria di merito dei candidati (frutto, lo ricordiamo di una prima, individuale cernita, che molti ha esclusi) e, una volta superato, oltre alla serie di lavori "dati in appalto" dietro alla più o meno esplicita promessa di carriera, la "missione" dell'insegnamento è il piatto di lenticchie. Il carico di insegnamento, per lo più gratuito, certo offerto/accettato per permettere il rafforzamento professionale, diventa materia di ricatto: il mancato espletamento – sebbene la legge non lo renda esplicitamente obbligatorio, legando l'assunzione del ricercatore alla ricerca, non alla docenza – mette a serio rischio il futuro del ricercatore o non accendendo alcun concorso ad associato "per lui/lei" (interessante esercizio la lettura delle gazzette ufficiali per gli ultimi concorsi ad associazione: per lo più lettere di raccomandazione ritagliate sui curricula dei candidati "eletti", mondati del loro nome) e, anche qualora avesse ottenuta idoneità in un concorso acceso in altra sede e per altro collega, potrebbe non venir chiamato. E' anche per questo che le proteste contro la riforma si esercitano sul veicolo del ricatto, col blocco della didattica e certo non per ledere gli interessi degli Studenti.
Il DDL propugna un accentramento autoritario non dissimile da quello che tenta di stabilire il dominio in questo Stato, focalizzato sulla figura del Rettore e di pochi ordinari. Si sono esclusi da organi di gestione e di valutazione o abilitazione professori associati e ricercatori, perché “manipolabili” da “manipolatori”, ovvero dagli ordinari. Sebbene molti appartenenti a questo ruolo affermino che finalmente si vedrà chi tenga in mano il fucile, la contraddizione di accentrare il potere nelle loro mani è evidente. Per svellere una cultura egemonica delle appartenenze, bisogna operare in modo organico, non inserendo precari da precarizzarsi ulteriormente a copertura di incarichi didattici, come si intende fare con i ricercatori a tempo determinato (RTD) assunti dietro la mascherata della tenure track: un meccanismo fattibile in altri contesti, ma difficilmente gestibile, se non garantito da norme stringenti, in questo nostro contesto italico, permeato d’una cultura malata. Con l’emendamento approvato il 29 luglio, l’assunzione degli RTD avviene in due tempi: dapprima con contratto a tempo pieno o parziale, da uno a cinque anni, (si badi bene) pure non consecutivi, cui seguirebbe un secondo contratto di tre anni a tempo pieno, cui dovrebbe conseguire la chiamata a professore. Sempreché tale delirio trovi applicabilità tanto sotto profilo economico che di accettabilità umana, si vede bene quanto ipocrita sia la percezione da cui tale proposta deriva: il ricercatore viene assunto per fare didattica. Il ricatto assume rigore di legge, mentre si riconosce ai ricercatori a tempo indeterminato (RTI ad esaurimento) la loro dignità, non legittimata ad oggi, di docenti, attribuendo pure a loro la valenza culturale che il docente universitario ("il barone") ha assunto in Italia, di colui che ha diritto allo "schiavo", dotando pure gli RTI di cultori della materia che svolgano il 10% di didattica per loro (emendamento della Lega), mentre vengono garantiti loro altri concorsi per l’assunzione del 25% di associati l’anno – ad accoglimento parziale della mozione Crui e sempre senza copertura finanziaria.
Nel caos di iniziative, pur lodevoli, di contrasto ad una siffatta riforma, emergono due correnti principali. Sebbene il nome possa trarre in inganno, il "Coordinamento Nazionale dei Ricercatori Universitari" del dott. Merafina rappresenta solo una piccola parte dei ricercatori, concordi nel richiedere un’ope legis. La maggior parte dei ricercatori universitari, invece, ritiene le proposte dal CNRU un’autogoal, in totale dispregio del primo articolo della Costituzione: ovvero d’invocare una garanzia di legge per manetenere lo status quo di asservimento, erogando il carico didattico cui sarebbero tenuti gli associati al costo dei ricercatori, per la seconda medaglia di cartone, dopo quella di "professore aggregato", d'una terza fascia. La “Rete 29 Aprile”, piuttosto, propone un ruolo unico della docenza con esaurimento del ruolo di ricercatori di professori associati e ordinari, declinato in una serie di livelli con promozione per merito e capacità specifiche desumibili con una valutazione seria di ricerca e didattica con retroazione premiale sugli individui e la loro produzione scientifica e i risultati didattici che beneficiano o puniscono, a ricaduta, i Dipartimenti cui appartengono, quali organismi primari responsabili di ricerca e didattica.
Ora, mi chiedo... vi chiedo: adottando un'ottica lungimirante, non vedete anche voi possibile un ruolo unico di docenza scandito da livelli di merito (e, quindi,  stipendiali e d’erogazione di fondi di ricerca supplementari) garantiti da una attenta valutazione di ricerca e didattica a scansione triennale e ponderata secondo settori scientifico disciplinari e d’abilità pedagogiche, anche per i gradi di istruzione precedente alla formazione universitaria, che possa favorire scelte di ricercatori/docenti di valore in base a criteri qualitativi (e non meramente quantitativi) di cui beneficino tutti i gradi dell’istruzione? Non sarebbe possibile, vi chiedo, garantire la mobilità fra i settori educativi e in quelli delle imprese correlate alle specializzazioni scientifiche: accanto alla possibilità di riflusso negli altri atenei e/o negli altri gradi di formazione / istruzione, ove il caso, occorre incentivare un rapporto con le aziende (realizzato solo a macchia di leopardo in questo Paese), prevedendo un progressivo riflusso in esse di quanti abbiano superato l’abilitazione nazionale e le valutazioni triennali in modo comunque positivo a partire dal primo triennio e per tutta la loro carriera, e non certo come un ripiego, ma in una dialettica costante e incentivante nell’alta qualità di formazione, produzione e perizia didattica. Un ulteriore sbocco, poi, per merito dovrebbe essere la trasformazione di questo rinnovato corpo docente (a tutti i livelli) in funzionari che entrino con cariche di responsabilità negli organi di governance di scuole, università e ministeri. Il tutto avrebbe bisogno di un periodo di transizione utile all’adattamento pratico ma, soprattutto, culturale rispetto alla nuova situazione. Ditemi, che ne pensate.

 
Cristiana Fiamingo
Ricercatore in Storia e Istituzioni dell’Africa
Università degli Studi di Milano
                                                                                   Monghidoro, 30 luglio 2010