.: Aggiungi un commento
Giovedì, 4 Maggio, 2006 - 19:35

Rispetto alla figura del politico Umanista

                            I fronti d’Azione nel processo Rivoluzionario
Vorrei soffermarmi ora su alcune considerazioni pratiche riguardanti la creazione delle condizioni necessarie a garantire l’unità, l’organizzazione e la crescita di un’adeguata forza sociale che consenta di muoversi nella direzione di un processo rivoluzionario.
La vecchia tesi frontista secondo cui le forze progressiste devono unirsi sulla base di un accordo su un numero minimo di punti oggi dà luogo alla pratica del “collage” tra dissidenze prive di radicamento sociale. Ne risulta un accumularsi di contraddizioni tra i vertici che mirano al protagonismo sui giornali ed alla promozione elettorale. Al tempo in cui un partito dotato di risorse economiche adeguate poteva egemonizzare una situazione di frammentazione, la proposta di un “fronte” elettorale era plausibile. Oggi la situazione è cambiata radicalmente ma, nonostante ciò,  la sinistra tradizionale continua ad utilizzare procedimenti di quel tipo come se nulla fosse accaduto. E’ necessario riconsiderare la funzione del partito in questo momento storico e domandarsi se sono i partiti politici le strutture capaci di mettere in moto la Rivoluzione. Perché se il sistema ha finito per metabolizzare i partiti trasformandoli nella “buccia” di un’attività politica che è in realtà controllata dai grandi capitali e dalla banca, un partito sovrastrutturale, privo di base umana, potrà anche avvicinarsi al potere formale (ma non al potere reale) senza per questo produrre la benché minima variazione di fondo. L’azione politica esige, per ora, la creazione di un partito che consegua rappresentatività elettorale a diversi livelli. Ma deve risultare chiaro sin dal principio che tale rappresentatività ha lo scopo di portare il conflitto in seno al potere stabilito. In questo contesto un membro del partito che sia stato eletto a rappresentante del popolo non è un funzionario pubblico ma un referente che mette in evidenza le contraddizioni del sistema ed organizza la lotta nella prospettiva della rivoluzione. In altre parole, il lavoro politico istituzionale o partitico è inteso qui come l’espressione di un vasto fenomeno sociale che possiede una dinamica propria. Pertanto anche nel periodo elettorale, in cui l’attività del partito raggiunge il suo picco massimo, i diversi fronti d’azione che servono occasionalmente da base al partito stesso, utilizzano la campagna elettorale per evidenziare i conflitti e per ampliare la propria struttura organizzativa. Qui appaiono differenze molto profonde con la concezione tradizionale del partito. In effetti fino a qualche decennio fa si pensava che il partito fosse l’avanguardia di lotta che organizzava i diversi fronti d’azione. Qui si propone l’idea opposta. Sono i fronti d’azione  che organizzano e sviluppano la base di un movimento sociale mentre il partito è  l’espressione istituzionale di tale movimento. Da parte sua il partito deve creare le condizioni che favoriscano l’inserimento di altre forze politiche progressiste, poiché non può pretendere che tali forze, includendosi nel suo seno, perdano la propria identità. Il partito deve andare al di là della propria identità formando con altre forze un “fronte” più ampio che riunisca tutti i fattori progressisti frammentati. Ma non si andrà oltre l’accordo di vertice se il partito non potrà contare su una base reale che dia orientamento ad un tale processo. D’altra parte, questa proposta non è reversibile, nel senso che il partito non può far parte di un fronte organizzato da altre sovrastrutture. Si creerà un fronte politico insieme ad altre forze se queste accetteranno le condizioni poste dal partito, la cui forza reale è data dall’organizzazione di base. Passiamo dunque ad esaminare i diversi fronti d’azione.
Debbono esistere differenti fronti d’azione e questi debbono svolgere la loro attività nella base amministrativa di un paese avendo come obiettivo il Comune o municipio. Nell’area scelta bisogna sviluppare fronti d’azione nell’ambito lavorativo e in quello di residenza, impegnandosi ad agire sui conflitti reali adeguatamente ordinati secondo una scala di  priorità. Questo significa che la lotta per una rivendicazione specifica non ha senso se non si trasforma in crescita organizzativa ed in un posizionamento in funzione dei successivi passi di lotta. È chiaro che ogni conflitto dovrà essere spiegato in termini tali che lo mettano direttamente in relazione  con il livello di vita, la salute e l’istruzione della popolazione (coerentemente con questo, i lavoratori della sanità e dell’istruzione dovranno prima diventare dei simpatizzanti e quindi dei quadri che si dedicheranno direttamente all’organizzazione della base sociale).
Se prendiamo in esame le organizzazioni sindacali, ci si presenterà lo stesso fenomeno osservato nei partiti del sistema; pertanto  non sembra il caso di proporsi il controllo del sindacato; bisogna proporsi piuttosto l’aggregazione dei lavoratori che, in questo modo, finiranno per togliere ai vertici tradizionali il controllo del sindacato. Si deve favorire qualunque sistema di elezione diretta, qualunque riunione plenaria o qualunque assemblea che coinvolga la dirigenza ed esiga da essa  una presa di posizione sui conflitti concreti,  obbligandola a rispondere alle richieste della base o ad essere altrimenti scavalcata. E’ chiaro che i fronti d’azione in campo sindacale devono disegnare la propria tattica avendo come obiettivo la crescita dell’organizzazione della base sociale.
Infine riveste estrema importanza la creazione di istituzioni sociali e culturali che operino nella base sociale, perché esse permettono di aggregare, nel contesto del rispetto dei diritti umani, collettività discriminate o perseguitate e di dar loro una direzione comune nonostante le reciproche differenze. Costituisce un grave errore di valutazione la tesi secondo cui ogni etnia, collettività o gruppo umano discriminato debba farsi forte in se stesso per contrastare i soprusi. Questa posizione parte dall’idea che il “mescolarsi” con elementi estranei faccia perdere identità a tali gruppi, quando  in realtà è il loro isolamento a indebolirli e a facilitare il loro sradicamento, oppure a spingerli verso posizioni estremiste che i loro persecutori utilizzano per giustificare le loro aggressioni.
La migliore garanzia di sopravvivenza per una minoranza discriminata sta nel far parte di un fronte comune con altri soggetti che diano alle sue rivendicazioni e alla sua lotta una direzione rivoluzionaria. In ultima analisi è il sistema considerato globalmente ad aver creato le condizioni per la discriminazione, condizioni che non scompariranno fino a quando questo ordine sociale non verrà trasformato.
(dal III capitolo della 7° Lettera ai miei amici – Silo 07/08/1993)
Parlando in termini spaziali, l’unità minima d’azione è il vicinato, che è il luogo in cui qualsiasi conflitto viene percepito, e questo  anche quando le radici del conflitto si trovino in luoghi molto lontani. Un centro di comunicazione diretta è un punto del vicinato nel quale si deve discutere qualunque problema economico e sociale, qualunque problema relativo alla sanità, all’istruzione e alla qualità della vita. Da un punto di vista politico, ci si deve preoccupare di dare al vicinato priorità rispetto al comune, alla provincia, alla regione autonoma o al paese. In realtà, molto prima che si formassero i paesi esistevano le persone, riunite in gruppi che, radicandosi in un luogo, hanno dato origine al vicinato. A queste persone, in seguito, sono stati sottratti autonomia e potere a misura che si sono create le sovrastrutture amministrative. Dagli abitanti, dai vicini, deriva la legittimità di un dato ordine sociale e da essi deve sorgere la rappresentatività in una democrazia reale. Il comune deve stare nelle mani delle unità di vicinato; da questo deriva che non ci si può proporre come obiettivo politico l’elezione di deputati e rappresentanti a diversi livelli, come succede nella politica verticista: tale elezione deve essere invece conseguenza del lavoro della base sociale organizzata. Il concetto di “unità di vicinato” vale sia per una popolazione diffusa sul territorio sia per una popolazione concentrata in quartieri di case unifamiliari o di palazzi. Il coordinamento delle varie unità di vicinato deve decidere la situazione di un dato comune, non può essere al contrario: tale comune non può dipendere, per le sue decisioni, da una sovrastruttura che gli invia ordini. Quando le unità di vicinato metteranno in atto un piano umanista municipale e quando un municipio o comune darà vita alla propria democrazia reale, l’“effetto dimostrativo” si farà sentire molto al di là dei limiti di quella roccaforte umanista. Non si tratta di proporre una politica gradualista che guadagni terreno a poco a poco  fino ad arrivare in tutti gli angoli di un paese ma di mostrare nella pratica che in un determinato luogo sta funzionando un nuovo sistema…
(Dal capitolo 3 della 10° Lettera ai miei amici – Silo 07/08/1993)

Rispondi

Non sei autorizzato a inviare commenti.