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Sabato, 12 Aprile, 2008 - 12:07

Dopo il voto la cura Costituente

Intervista a Fausto Bertinotti
Dopo il voto la cura Costituente
A campagna elettorale finita: «Se non ci muoviamo subito rischiamo di diventare dei reperti archeologici. Per il nuovo soggetto della sinistra partiamo col tesseramento dal basso» La sinistra-arcobaleno nasce contro il modello americano che sterilizza il conflitto sociale. Come fa il Pd
Gabriele Polo
da Il Manifesto dell'11 aprile 2008

«Se non ci sbrighiamo diventiamo reperti archeologici. Rispettabili, persino affascinanti, ma inutili». Fine di campagna elettorale. In attesa dell'esito, Fausto Bertinotti guarda al dopo: sembrano lontani gli esordi del «salviamo la pelle», incalza il futuro del «nuovo soggetto politico». Sapendo «che il risultato del 13-14 aprile - precisa - non sarà irrilevante e quel futuro lo segnerà».

Una campagna elettorale difficile: partenza affannata e in salita, il peso delle delusioni governative e la sconfitta di una scommessa politica. E' stata dura?
Sì, difficile. Perché l'esperienza di governo non ha dato i frutti sperati, perché nonostante le grandi attese per un processo unitario a sinistra l'arcobaleno è nato più sotto il segno della necessità che come progetto. La stessa composizione delle liste lo ha evidenziato. Poi in questo mese qualcosa è cambiato grazie al contatto diretto con il nostro «popolo».

Tu stesso sembravi più stanco allora che adesso...
E' vero. Perché all'inizio era proprio un dover essere, quasi un obbligo etico-morale. In una costruzione unitaria che veniva quasi esclusivamente da una scelta di quattro partiti: la registrazione di una condizione, più che un'investimento sul futuro. Poi la campagna elettorale si è «separata» da questa condizione. Sono entrate in campo nuove energie. Penso ai tanti giovani che si sono attivati, soprattutto al sud. Ad atti simbolici come l'apertura della Casa della sinistra al Testaccio di Roma, nei locali che un tempo erano quelli della sezione di quartiere del Pci, dove ci siamo ritrovati insieme dopo tanto tempo, quasi commossi...

Cadi nella nostalgia...
No, è un sentimento che guarda in avanti, al futuro. Ma se vuoi che non parliamo del Pci, ti cito l'entusiasmo dell'assemblea a Firenze con Paul Ginsborg o piazza della Loggia a Brescia piena di operai. In tutte queste occasioni il tono è stato: «Non è un cartello elettorale». Non a caso nelle piazze i simboli di partito sono spariti per lasciare spazio alle bandiere della sinistra-arcobaleno.

E' la stessa cosa che dice Veltroni sulle bandiere di Ds e Margherita scomparse per far spazio a quelle del Pd... Ma è normale in campagna elettorale: se poi va male si spacca tutto e tornano le appartenenze?
Non credo. Io ho un legame profondo con i simboli, ma credo che ci muoviamo su un terreno terremotato. Tutto è cambiato nel rapporto tra politica e società. Il punto è capire se esiste - come penso esista - un'uscita da sinistra dalla crisi che abbiamo vissuto. Prendiamo come esempio il nord Italia, quella che i media chiamano comunemente «questione settentrionale» e che per noi è la «questione operaia». Sappiamo che c'è un consistente voto a destra tra i lavoratori e che proprio lì è più difficile la costruzione di una soggettività alternativa al mercato come stato di natura e alla politica come amministrazione dell'esistente. Perché? Secondo me proprio per il rovesciamento di quella che era stata la nostra forza: la sinistra poteva considerarsi tout court il movimento operaio e proporsi di rappresentare il conflitto di classe. La centralità operaia, al nord, era la politica...

Beh, c'è stata una sconfitta sociale profonda e una «rivoluzione» capitalistica, che hanno rotto il rapporto tra sinistra politica e classi lavoratrici...
Certo, ma quando si spezza il rapporto con la classe per sé, per usare le nostre formule classiche, è chiaro che c'è uno scompaginamento di fronte e tu sei orfano. Al nord il problema della ricostruzione è messo a nudo. Al centro è già diverso, lì rimane un «deposito» di organizzazione della società civile, della politica nella società civile. Quando vai a parlare alla festa dell'Unità a Bologna sai che è il popolo della sinistra che ti ascolta. Magari litighi, ma ci si capisce. Al sud il panorama cambia ancora, trovi una prorompente vitalità soprattutto nei giovani. Nonostante tutti i problemi, i movimenti sono più dinamici, forse proprio perché sono nati e cresciuti nel «deserto». Quindi è proprio un terremoto. E mi sembra che questo stia nella coscienza collettiva di questa nostra campagna elettorale: nella mobilitazione dal basso e nei tanti compagni e intellettuali che pur sottolineando tutti i nostri limiti si sono spesi per la Sinistra-arcobaleno. Anche questo è significativo: all'inizio era «portiamo a casa la pelle», man mano che siamo andati avanti è «costruiamo la sinistra del futuro».

Ma prima c'è un difficile passaggio elettorale. Lì ci si misura sui grandi numeri e ci si scontra con tante delusioni: non ti sembra un messaggio troppo vago dire «investite sul futuro»?
No, dalle esperienze che ho fatto, questo è il messaggio più forte. Più rilevante persino di quello programmatico. Anzi, è la prima volta che l'attenzione per i contenuti della piattaforma elettorale viene dopo...

Anche perché candidandosi all'opposizione non si può promettere nulla...
Questo è secondario, il fatto è che la «piattaforma» è al servizio del progetto. La gente in sostanza ci dice una cosa: «Ho capito, ma dimmi che uso farai di questi voti». E' evidente che ci portiamo addosso il peso della delusione del popolo di sinistra rispetto agli ultimi due anni e all'esperienza di governo. In questo senso il «programma» diventa uno strumento per spostare il baricentro dell'azione politica dal rapporto con il governo all'iniziativa sociale: è un programma per l'azione in cui costruire il nuovo soggetto della sinistra. Dovremo ritrovare i luoghi dove studiare, dove riflettere, dove ragionare, sul rapporto tra partiti e movimento, sull'autonomia del partito dal governo. Ma traiamo una conclusione: abbiamo misurato l'insuccesso della nostra ipotesi politica da cui usciamo con un cambiamento del baricentro che collochiamo nella costruzione dell'azione collettiva. Di questo parla il programma: non del rapporto con il Pd, e nemmeno del rapporto governo-opposizione. Da qui chiediamo un voto per costruire la sinistra in Italia, affinché ci possa essere una potenza democratica nella politica, che dia sostanza e corpo a questo agire collettivo, senza che gli sia impedito l'accesso e l'influenza nelle istituzioni repubblicane.

Qui torni all'antico: senza una presenza istituzionale la sinistra sparisce a prescindere da ciò che esiste nella società?
La realtà nordamericana ci dice che può esistere una sinistra anche fuori dalla storia del movimento operaio però dentro un recinto il cui confine è segnato dal fatto che il conflitto sociale non può diventare un soggetto politico ma è semplicemente un fatto sociologico. I conflitti ci sono ma sono fisiologici, hanno una natura «sindacale», non possono schiodarsi da quella dimensione. E' l'orizzonte del Pd che, da un lato, recide ogni legame con il movimento operaio - persino tenere fuori i socialisti e prendersi Di Pietro è dentro questa logica -, dall'altro afferma che non ci può essere il collegamento fra il conflitto nella società e il conflitto nelle istituzioni repubblicane. Questo è un punto cruciale, sapere se noi vogliamo restare in Europa o se emigriamo negli Usa. Dove il conflitto può persino essere più radicale, ma resta politicamente isolato.

La storia del movimento operaio aveva un suo immaginario, oltre che una pratica, aveva i suoi «nomi» e i suoi «simboli». La ricostruzione di una sinistra in Italia passa per l'accantonamento di questo immaginario? Ma così non si sterilizzano le passioni e la politica diventa routine? Insomma, se il comunismo è «una tendenza culturale» lo dobbiamo dirottare sulle pagine della cultura del «manifesto»?
Mica ti chiedo di rinunciare alla vostra testatina di «quotidiano comunista»... Il comunismo rimane quel movimento che - tortuosamente - cambia lo stato di cose presenti. Nel concreto è una tendenza politico-culturale dentro la nuova soggettività politica.

Cioè?
Direi due cose. Una sostanziale e una simbolica. Quella sostanziale. La sinistra del futuro deve mettere a tema la trasformazione dell'esistente. Uso volutamente termini più vari di quelli che userei secondo la mia cultura - cioè la trasformazione della società capitalistica - perché voglio comprendere in questa ricerca tutto ciò che è cresciuto sotto il cielo in questi anni di crisi, nella critica alla società contemporanea, non solo la tradizione del movimento operaio, ma anche le pratiche critiche venute dalle culture di genere, ambientaliste, pacifiste. Questi percorsi devono entrare in relazione per costruire il tema della trasformazione di un capitalismo totalizzante. E ci stiamo approssimando a questo scopo, che però richiede la costruzione di luoghi di ricerca politico-culturale senza le quali non si va da nessuna parte.

Serve un'elaborazione libera dai vincoli della quotidianità politica?
Esatto. Poi c'è l'elemento simbolico. Il movimento operaio è stato il più organico tentativo di costruire un immaginario simbolico fuori dalle religioni. Nelle feste come nelle manifestazioni. Per non parlare delle bandiere e dei simboli di partito...

Sempre con il rischio produrre nuovi simboli religiosi...
Sì, la gestione dei simboli è cosa complicata. Quelli che si sono consolidati con una lunga storia nel momento della crisi, del passaggio, possono avre tre destini. Primo: essere messi in una teca, assumendo un'assoluta rispettabilità perché entrano a far parte non di una storia, ma della storia. Solenni ma inerti. La seconda è che si riducano a una caricatura di se stessi, per cui vivono soltanto per la setta che li custodisce, non ha nessuna importanza con quanta aggressività. Ma non parlano al mondo, parlano alla setta. La terza è che fertilizzino, partecipando alla costruzione di un nuovo progetto, che siano simboli di una identità aperta, che si aprano all'annuncio della costruzione di una nuova simbologia di cui diventano parte. Il punto che però voglio proporre è sapere se possiamo praticare una fuoriuscita evolutiva dal '900 e dalla storia del movimento operaio. Da sinistra e non da destra come è già avvenuto.

L'uscita è stata a destra per quella sconfitta storica di cui dicevamo prima... In fondo l'89 è venuto di conseguenza.
Si, è vero, ma è andata così anche perché è mancata una soggettività politica-culturale capace di elaborare quella sconfitta. Nel terremoto odierno questa possibilità di riprendere il filo c'è.

Con la sinistra-arcobaleno? Ma non è che finita la campagna elettorale gli apparati prevarranno e si divideranno nuovamente? A prescindere dal risultato?
Innanzitutto il risultato non è irrilevante, anzi, determinerà il «come» del processo unitario, il «se» non è in discussione. Più la spinta unitaria dal basso avrà un buon risultato, più le vecchie divisioni e chiusure saranno in difficoltà. Ma io credo comunque che questo processo sia irreversibile. Il punto è capire - e su questo l'esito del voto conterà molto - se sapremo costruire una nuova classe dirigente di sinistra - per quanto articolata per storie e culture - all'altezza di questo progetto.

Si parla di federazione, soggetto, costituente... Divergenze solo nominalistiche?
Quel che posso dire - come candidato unitario alla vigilia del voto - è che se ci concepiamo come semplice cartello elettorale siamo destinati a perdere anche come cartello elettorale. Se abbiamo messo in campo una capacità attrattiva è proprio sulla scommessa del soggetto futuro. In secondo luogo credo che il giorno dopo le elezioni si aprirà il processo costituente di un soggetto plurale ma unitario della sinistra. Che vuol dire un'organizzazione politica autonoma che costruisce il programma fondamentale del futuro e la forma democratica per renderla partecipata. Come è successo al Testaccio, dove un'assemblea di persone si riunisce e apre un tesseramento alla Sinistra-arcobaleno, senza chiedere a ciascuno a quale partito, associazione o sindacato sia già iscritto. Il futuro non si risolve con l'ingegneria organizzativa ma con un laboratorio politico.

E i partiti che fine fanno?
Decideranno. Discutiamo prima come costruire il soggetto unitario - nei contenuti e nelle pratiche -, poi vedremo come i partiti ci si rapporteranno.

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