.: Aggiungi un commento
Martedì, 26 Dicembre, 2006 - 10:24

Lettera aperta a Pinochet

Lettera veramente aperta a Pinochet
ripubblichiamo la lettera scritta all'epoca della detenzione del dittatore
Olivier Turquet
13 dicembre 2006
Ripubblichiamo la lettere che lo scrittore cileno Ariel Dorfman scrisse quando il dittatore Pinochet fu recluso a Londra.
Ci pare rsti molto viva ed attuale ora che, con la morte del dittatore, un triste revisionismo storico si sta mettendo in marcia.
Lettera veramente aperta al generale Pinochet
"Mi creda, generale: è quanto di meglio le potesse succedere".
Mi rendo conto che non è piacevole ritrovarsi detenuto senza alcun preavviso, non poter uscire a passeggiare per le strade di Chelsea quando se ne ha voglia, non sapere quale futuro ci attenda. Può chiederlo, senza dover cercare troppo lontano, ai tanti cileni che lei stesso ha privato della libertà in circostanze estremamente meno confortevoli di quelle offerte da una clinica londinese a cinque stelle.
Ma se ha paura, se si sente solo, se crede di essere stato pugnalato alle spalle, generale, pensi che il destino le ha offerto, nel momento in cui la sua vita volge ormai al tramonto, una provvidenziale opportunità di salvarsi l'anima. Dal golpe del '73 lei ha vissuto e vive in un inganno, in una minuziosa e sdegnosa autogiustificazione di quella condotta che lei iniziò a fondare esattamente sulla morte, intollerabile e accusatrice, di Salvador Allende, l'uomo cui lei deve la sua nomina a capo delle Forze Armate, e che lei tradì: e a quel primo tradimento ne seguirono altri. Si trattò, in realtà, di una valanga inarrestabile, poiché il primo grande crimine ha sempre bisogno di altri crimini dietro i quali nascondersi; i dittatori aspirano al potere assoluto per trovare rifugio dai demoni che loro stessi hanno scatenato. Al fine di mettere a tacere i fantasmi esigono che intorno a sé venga innalzato un muro di specchi adulatori e di ossequiosi consiglieri che ripetano in continuazione: "sì, sei tu il più bello, sì, sei tu il più buono, sì, sei tu a sapere tutto". E lei finì per crederlo, generale.
Si è difeso da quel che aveva fatto, e da quel che continuava a fare, con la muraglia impenetrabile della sua invulnerabilità: nessuno le avrebbe mai presentato il conto, perché ci sarebbe stata una legge per lei e un'altra per il resto dei suoi concittadini. E quando, nel 1988, il popolo cileno votò in massa contro di lei arrivando infine a costringerla, nel 1990, a lasciare la presidenza, lei fu così abile da intrappolare con incredibile astuzia il paese intero in una transizione grazie alla quale lei non avrebbe mai dovuto rispondere né di ciò che aveva detto né di ciò che aveva fatto. Una transizione in cui lei era l'unico veramente libero di dire e di fare quel che voleva, il bello e il cattivo tempo, come lei stesso andava ripetendo con arroganza sorniona, mentre i suoi compatrioti dovevano continuamente tenere a freno la lingua e pesare ogni parola.
A noi non fu concesso, durante quella transizione pattuita e necessaria, lasciarci trasportare dalle emozioni, mentre lei poteva prendere a calci la scacchiera perché non le piaceva la nostra ultima mossa: uno scacco al quale non avevamo diritto. Di fatto, generale, lei ha pensato di poter continuare a godere dell'inviolabilità di un dittatore in pieno processo democratico, e ha confuso il suo paese con il mondo.Ha pensato di poter fare un viaggio in Inghilterra, nazione da lei stesso definita come l'esempio più alto e luminoso della
civiltà, di poter passeggiare lungo il Tamigi come fosse il Mapocho, ed era convinto che gli inglesi avrebbero dovuto rispettare e onorare i patti e le regole e le consuetudini cilene come se fossero state le loro.
E' doppiamente dolce pensare che lei si è messo in trappola da solo, generale, che è stata la stessa superbia con la quale aveva governato ad accecarla e perderla, nell'illusione che avrebbe potuto continuare in eterno ad imporre agli altri la sua volontà. L'impenetrabilità del suo isolamento le garantiva di non dover mai guardare, né da vicino né da lontano, il dolore che lei stesso aveva inflitto ai suoi simili.
Ecco perché questa detenzione le sarà tanto salutare. E di certo lo sarà anche per il paese: perché ci costringerà a guardarci in faccia, mettendo alla prova la nostra democrazia, la sua forza, la sua possibile precarietà; e finalmente ci porterà a confrontarci con il bisogno di risolvere al più presto questa complessa, ambigua ed eterna transizione che lei ha sempre limitato con la sua costante ombra e presenza.
Voglio che sappia, generale, che non credo nella pena di morte. Credo, questo sì, nella redenzione umana: persino nella sua, generale. Per questa ragione quello che per venticinque anni ho desiderato che le succedesse - quello che ancora non riesco a credere le stia veramente per succedere - è che un giorno o l'altro, prima della sua morte, lei debba fissare i suoi occhi azzurri negli occhi scuri e chiari delle donne i cui figli, mariti, genitori e fratelli lei trasformò in desaparecidos; ho desiderato che quelle donne, una dopo l'altra,
avessero la possibilità di raccontarle che cosa accadde quando le loro vite furono calpestate e distrutte da un ordine che lei impartì o da un'operazione di quella polizia segreta cui lei non mise mai nessun freno. Mi sono sempre chiesto che cosa ne sarebbe stato di lei nel momento in cui fosse stato costretto, giorno dopo giorno, ad ascoltare le infinite storie delle sue vittime e a doverne ammettere l'esistenza.
Lei che crede in Dio, generale, si renda conto di quale benedizione le abbia mandato il suo saggio, misericordioso e severo Signore negli ultimi giorni della sua vita: la possibilità che lei si penta. La possibilità di spezzare dall'interno il circolo tremendo dei suoi crimini e dirci dove sono i nostri morti. Ne sa qualcosa, Don Augusto?
Io, personalmente, mi accontenterei di questo. Sarebbe un castigo sufficiente, e pensi che gran contributo sarebbe per questo paese da lei tanto amato: potrebbe aiutarci a far sì che la nostra patria comune compia un ulteriore passo avanti sulla difficile strada della riconciliazione, riconciliazione che è possibile, sì, ma solamente se si accetta la terribile verità di quello che abbiamo passato, se lei parteciperà alla ricerca dolorosa di quella verità senza mentire, né a se stesso né a noi.
Ricordi quello che la storia, la religione e anche la letteratura c'insegnano: la cosa migliore che possa succedere a un criminale è di essere catturato, perché nella reclusione solitaria, senza più le difese abituali con le quali nascondere il proprio passato, può forse minimamente aprirsi nel prigioniero la finestra di una possibile redenzione.
Non credo che lei leggerà queste parole, né tantomeno che vi darà ascolto. Non credo che rinuncerà volontariamente ad un'immunità che non le appartiene né tantomeno ad un'impunità che ha sempre creduto di avere. Non credo che il suo corpo, nel momento in cui si trova prigioniero, possa iniziare a percorrere quel cammino spirituale che la porterebbe ad agire come un uomo veramente libero; che possa rinunciare alla paura e penetrare il mistero della sua vita; che possa
vedersi come la vede la stragrande maggioranza dell'umanità e capire perché vogliamo esorcizzarla. Lei e i tanti altri tiranni di questo secolo che sta finendo.
Non è mai tardi, generale.
ARIEL DORFMAN

Rispondi

Non sei autorizzato a inviare commenti.