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Giovedì, 21 Settembre, 2006 - 08:33

Istituto Marchiondi

Dalla prima pagina del  Corriere del 21 Settembre, c'è poco da aggiungere.

Il complesso Marchiondi, gioiello dell’architettura anni 50, in pieno degrado. Tra aste e sgomberi Milano, i Rom e i sette palazzi premiati al MoMa di GIAN ANTONIO STELLA Gli americani hanno solo il modellino plastico, e per onorarlo lo hanno esposto al Mo.Ma., il museo d'arte moderna più famoso del mondo. Noi abbiamo l'edificio in muratura, e l’abbiamo abbandonato alle ortiche, alla ruggine, al pattume. Dovesse venire uno studioso straniero a vederlo, sbarrerebbe gli occhi: ma siete matti? E non nel profondo Sud sgarrupato: a Milano. Nella civilissima, elegante, ricca Milano. Ogni tanto i giornali ne parlano. Succede a ogni sgombero. Questa settimana è successo a un gruppo di Rom. Altre volte era toccato a marocchini, albanesi, sudamericani, disperati, tossici e spacciatori di varie nazionalità. Un articolo e via: «Sgomberato l’ex Marchiondi». Poi il silenzio, la polvere, la gramigna infestante si ingoiano tutto di nuovo. Fino alla nuova denuncia del consiglio di zona, al nuovo sgombero, al nuovo spazio sui quotidiani. Magari, come stavolta, col commento del vicesindaco Riccardo De Corato: «Noi volevamo venderlo ma non l’ha voluto nessuno».
Le cose non stanno esattamente così. Ma partiamo dall’inizio. Cioè dal protagonista di queste vicende, il complesso di 7 edifici «Marchiondi» costruito nel 1953 in via Noale, a Baggio, per «rieducare ragazzi difficili e caratteriali». Progettato da Vittoriano Viganò, uno dei più celebri architetti milanesi, è considerato per la scelta del cemento armato «a vista» uno dei capolavori della corrente «brutalista». E come tale è sottoposto a un vincolo della Soprintendenza ai beni architettonici.
Chiuso l’istituto nel 1970, la struttura che appartiene al demanio comunale, cioè a tutti i milanesi, è stata via via abbandonata (tranne un palazzo che fino a tempo fa ospitava un centro per i servizi sociali) al degrado. Al punto che oggi, a vederlo, sembra uno scheletro di quei mostri edilizi costruiti dai regimi comunisti in attesa di essere abbattuto da una ruspa pietosa. Muschio ed erbe infestanti sul cemento, finestre spaccate, stanze che si allagano al primo acquazzone, muri imbrattati delle peggiori schifezze, lavandini e water spaccati. Ogni tanto, dopo qualche sgombero, portano via un po’ di camion di immondizia. Poi, coi nuovi arrivi, l’accumulo di rifiuti riprende. E coi rifiuti la puzza. Ammorbante.
Cosa fare? Davanti all’inarrestabile degenerazione del capolavoro architettonico, il cui recupero peserebbe molto sulle casse pubbliche in anni di magra, il Comune fa sapere nei primi mesi del 2003 di essere disponibile a vendere. Meglio: vista la difficoltà per un ente pubblico di mettere sul mercato una struttura finita sui testi universitari, fa sapere di essere disponibile a cedere il suolo per 35 anni. Un periodo congruo perché chi investe possa recuperare i soldi necessari a una radicale ristrutturazione. Purché gli edifici, s’intende, restino fedeli alla destinazione d’uso. Cioè restino delle scuole. Sorpresa: c’è chi ci sta. È l’International School of Milan. Un istituto di solida tradizione, fondato nel 1957, che ha avuto tra i suoi allievi un pezzo della classe dirigente ambrosiana e larga parte dei figli degli stranieri di passaggio. Oggi ha un centinaio di studenti a Modena, 200 a Monza, 450 a Roma e 1.100 (dalla materna alle medie superiori) a Milano, dove registra alunni di 57 nazionalità. Paolo Formiga, uno dei titolari, spiega il progetto: portare lì tutti i suoi iscritti milanesi, oggi sparsi in quattro diverse sedi.
I primi contatti sembrano delineare un lieto fine in tempi veloci. Palazzo Marino organizza un sopralluogo coi potenziali clienti, offre i vigili ogni volta che è necessario accompagnarli tra quella umanità dolente ma anche violenta di abusivi, chiede all'architetto dell'International School, Anna Cilia, quanto verrebbe a costare la ristrutturazione. Gabriele Albertini precisa in una lettera a Formiga che, ovviamente, vanno rispettate tutte le procedure di legge. Ma l'interesse del Comune c'è. La proposta appare infatti, al sindaco, «molto interessante».
Siamo nel giugno 2003. Da quel momento, di riunione in riunione, di verifica in verifica, di carta bollata in carta bollata, alla faccia di tutti i proclami sull'efficienza della macchina burocratica milanese, le cose cominciano inesorabilmente a farsi lente, lente, lente. Al punto che, dopo l'assicurazione, nel maggio 2004, che entro un paio di settimane sarebbe stata indetta l'asta per la cessione con la formula del «diritto di superficie», l'asta non verrà bandita mai più. Peggio: un anno dopo Palazzo Marino comunica che ha scelto di dare la struttura in «concessione d'uso». Per capirci: in affitto. «Impensabile», risponde Paolo Formiga, «le banche non ci darebbero mai i dieci milioni di euro che servono per i lavori senza neppure l'acquisto del diritto di superficie». A quel punto anche Pasquale Maria Cioffi, il presidente del consiglio di zona, perde la pazienza. E pur essendo legato a Forza Italia, cioè al partito che esprime il sindaco, prende carta e penna e chiede come si possa consentire che l'ex «Marchiondi» venga lasciato a un degrado così umiliante: «Sarebbe questo il nostro marketing urbano? Questo il nostro supporto alla crescita economica e occupazionale? Questa una corretta amministrazione del patrimonio in base ai principi sia del diritto privato sia del diritto pubblico?».
Da allora, passin passino, le cose si sono trascinate stancamente fino a febbraio quando è stato indetto un nuovo bando: chi vuol prendere l'ex Marchiondi in affitto? Che si sappia, si è presentato un solo concorrente, il Consorzio di cooperative sociali. Nel frattempo, sono continuate le occupazioni. Come finirà? Auguri. Una cosa è certa: forse l'International School non era per il Comune l'interlocutore giusto, forse è meglio davvero tentare di concedere quella struttura di Baggio solo in affitto, forse ogni singola lentezza burocratica era obbligata. Ma non si tratta così un'opera tutelata dalle Belle Arti. E soprattutto: perché raccontare «noi volevamo venderlo, ma nessuno lo ha voluto»?
Gian Antonio Stella

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