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.: Il Blog di Alessandro Rizzo
Mercoledì, 25 Giugno, 2008 - 13:09

SGOMBERATO SCALO ROMANA. COMUNE CHIARISCA dove vanno i rifugiati

SGOMBERATO SCALO ROMANA. COMUNE CHIARISCA CHE FINE FARANNO I RIFUGIATI
di lucmu (del 25/06/2008, in Migranti&Razzismo, linkato 9 volte)
Stamattina all’alba sono iniziate le annunciatissime operazioni di sgombero del degradato ex scalo ferroviario di Porta Romana, utilizzato da tempo come rifugio insalubre da centinaia di immigrati, in larga parte profughi di guerra africani.
C’erano la polizia locale, la polizia di stato e i carabinieri, ma anche la protezione civile, i servizi sociali e personale medico. Insomma, tutto è avvenuto nella massima tranquillità e persino i mezzi dell’Atm mobilitati erano privi delle ormai tristemente famose grate di sicurezza.
Visti i tempi che corrono, sicuramente una notizia positiva. Ma, dall’altra parte, le oltre 150 persone identificate e poi trasportate in centri del Comune sono tutte in possesso di regolare permesso di soggiorno per motivi umanitari, nonché censite già da dieci giorni, e non si sarebbe proprio capito un procedimento diverso.
Tutto bene dunque? Non proprio, perché va ricordato il fatto che a quelle persone lo Stato italiano aveva accordato formalmente la sua protezione, perché riconosciuti come profughi di guerra, salvo poi abbandonarli al loro destino. È così che erano finiti a dover campare in condizioni allucinanti nell’ex scalo ferroviario e tanti altri come loro continuano a sopravvivere in maniera analoga in altri interstizi degradati della metropoli.
E come se non bastasse, tra i profughi oggi identificati non troviamo soltanto dei recenti arrivati, ma anche persone che le istituzioni avevano già incontrato in passato, in viale Forlanini oppure in via Lecco. Cioè, erano già state censite come profughi senza tetto ed erano già state indirizzate in vari centri di accoglienza del Comune. Eppure, oggi ancora una volta li ritroviamo a vivere tra le macerie e i rifiuti.
Insomma, si tratta di un girone infernale che sembra non avere vie d’uscita: i rifugiati passano dalle aree degradate alle sistemazioni temporanee nei centri e nei dormitori comunali, per poi ritornare sempre al punto di partenza.
Oggi il Comune ha elencato le destinazioni dei rifugiati dello Scalo Romana. Si tratta dei soliti noti centri di accoglienza e del dormitorio di viale Ortles, cioè di sistemazioni per definizione temporanee.
La domanda che si impone a questo punto è dunque la seguente: il Comune di Milano intende procedere come ha fatto precedentemente oppure questa volta c’è la ricerca di una soluzione più stabile, dal punto di vista abitativo e dell’inserimento sociale?
Visti i precedenti, ci pare una domanda obbligatoria che richiede una risposta pubblica, perché se alla fine siamo alle solite, allora dobbiamo necessariamente concludere che quella di oggi era soltanto un’operazione di immagine, utile per fare un po’ di comunicati stampa e marketing politico, ma tra qualche mese tutto torna come prima, con i rifugiati per strada, a cercare nuove macerie dove potersi sistemare.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Martedì, 24 Giugno, 2008 - 17:40

VITTORIA DI BASE

VICENZA Il tribunale dichiara «illegittimo» il sì di Prodi, dà ragione ai cittadini e ferma i lavori
Il Tar blocca il Dal Molin
VITTORIA DI BASE Il tribunale amministrativo veneto boccia l'ex premier su tutta la linea: non ha consultato la popolazione, sulla decisione non c'è alcun atto scritto e il bando di gara non ha rispettato le norme italiane ed europee. Il Codacons e i comitati esultano: ha vinto la nostra linea. Il sindaco Variati promette anche un referendum cittadino. E il governo Berlusconi tace imbarazzato
Orsola Casagrande
VICENZA
La nuova base militare americana al Dal Molin non si può fare. Il giudizio del Tar del Veneto arrivato ieri mattina è netto, e sospende i lavori in attesa che sul prevedibile ricorso si pronunci il Consiglio di Stato. I comitati cittadini esultano: è la vittoria della società civile, di una città che non ha mai smesso di lottare. La sentenza del Tar ha accolto in toto il ricorso presentato dal Codacons, dal coordinamento dei comitati dei cittadini contro la base e da altre associazioni. Nel ritenere «illegittima» la decisione del governo Prodi il Tar sostiene che è mancata la consultazione della popolazione interessata, nonostante fosse prevista dal memorandum Stati uniti-Italia. Ma denuncia anche di non aver riscontrato alcuna traccia documentale di sostegno «sull'atto di consenso presentato dal governo italiano a quello degli Stati uniti, espresso verbalmente nelle forme e nelle sedi istituzionali». Questo consenso, scrivono i giudici, «pertanto risulta espresso soltanto oralmente» e per questo motivo «appare estraneo ad ogni regola inerente all'attività amministrativa e assolutamente extra ordinem. Tale dunque da non essere assolutamente compatibile con l'importanza della materia trattata con i principi tradizionali del diritto amministrativo e delle norme sul procedimento, in base ai quali ogni determinazione deve essere emanata con atto formale e comunque per iscritto». Un giudizio pesantissimo, dunque, sull'operato del governo italiano il cui assenso, insistono i giudici, «risulta essere stato formulato, del tutto impropriamente, da un dirigente del ministero della difesa, al di fuori di qualsiasi possibile imputazione e competenze e di responsabilità ad esso ascrivibili in relazione all'altissimo rilievo della materia».
Ma il Tribunale amministrativo regionale non si ferma qui. Infatti nella sentenza ribadisce che ci sono anche «altri profili di illegittimità, alla luce della normativa nazionale ed europea». In particolare si sottolinea che l'autorizzazione è stata data «non solo per quanto riguarda l'insediamento delle nuove strutture della base militare, ma anche per la realizzazione delle relative opere, senza procedere alla verifica ex ante, del rispetto delle condizioni esplicitamente apposte». I magistrati aggiungono che sul bando di gara già effettuato per la realizzazione delle opere non sarebbero state rispettate le «normative europee e italiane in materia di procedure ad evidenza pubblica per l'assegnazione di commesse pubbliche». Il Tar quindi ricorda che per disposizione del commissario straordinario Paolo Costa «era stata prevista come condizione la redazione di un progetto alternativo, relativo in particolare agli accessi alla base». Peccato che di questo progetto «non è riscontrabile alcuna menzione nella autorizzazione». La bocciatura del Tar sulla nuova base militare Usa al Dal Molin è davvero su tutti i fronti.
Per il Codacons «la motivazione espressa dal Tar è ancora più soddisfacente di quanto ci si poteva aspettare, poichè i giudici sono entrati nel merito dell'intero procedimento, contestandolo pezzo per pezzo come il Codacons chiedeva». Il presidente Carlo Rienzi ribadisce che si tratta di «una sentenza di importanza estrema e che rappresenta una vittoria di tutti i cittadini. I giudici infatti non solo hanno riconosciuto le tesi sostenute dalla nostra associazione ma hanno ribadito con fermezza l'importanza dell'opinione dei cittadini in merito a questioni che riguardano direttamente il territorio e l'urbanistica». Il Codacons aveva presentato ricorso contro la nuova base al Dal Molin contestando tra le altre cose la violazione dell'articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra e degli articoli 80 e 87 sull'obbligo di ratifica con legge dei trattati internazionali di natura politica, nonché la violazione dei trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Anche dal presidio no Dal Molin parole di gioia per questa sentenza che «dimostra - dice Marco Palma - quanto fondate sono le tesi dei cittadini che da due anni si oppongono alla realizzazione dei progetti statunitensi. Il Tar, infatti, riconosce i pericoli ambientali e urbanistici legati alla realizzazione dell'opera. Chi ha tentato di prendere in giro la cittadinanza, ora, è stato smascherato». Il presidio si impegna a vigilare sull'osservanza di questa sentenza, che nei fatti è una sospensiva e blocca qualunque lavoro «per difendere la legalità che più volte hanno tentato di calpestare i promotori dell'opera». Il presidio ha organizzato tre giornate di mobilitazione, a partire da oggi con dei banchetti informativi in centro. E poi giovedì prossimo con una presenza in piazza dei Signori in contemporanea al dibattito del consiglio comunale e il 30 giugno con una mobilitazione.
Il sindaco di Vicenza, Achille Variati, ha ribadito che la giunta proporrà nella seduta del consiglio di giovedì prossimo il referendum cittadino, che dovrebbe svolgersi a ottobre. Sulla sentenza Variati dice che «si tratta della vittoria delle ragioni di un territorio: avevamo sempre denunciato la mancanza di informazioni, di una vera discussione e di una legittimazione della procedura avviata». Mentre per il presidente dell'Ecoistituto del Veneto, il verde Michele Boato, «Davide ha fermato Golia. Sembra incredibile, ma è successo, dopo due udienze interlocutorie nei mesi scorsi, il dibattimento di mercoledì si è concluso con la sospensiva di tutte le strane autorizzazioni con cui il governo Prodi prima (commissario Paolo Costa) e quello Berlusconi poi permettevano all'esercito degli Stati uniti di calpestare le norme dello stato italiano». «No comment» invece dal commissario Paolo Costa come dal governo Berlusconi e dagli Usa.

www.ilmanifesto.it
21 giugno 2008

Martedì, 24 Giugno, 2008 - 17:35

“Questa non è la carriera che volevo”

un italiano su 5 ha sbagliato lavoro

di FEDERICO PACE

Sempre più confessano di sentirsi inadatti al percorso professionale intrapreso. Ma cambiare è difficile. Soprattutto per ragioni economiche. A incidere anche il tempo necessario a “riconvertirsi” e le ragioni familiari. Le donne le più insoddisfatte. Nel mondo i più scontenti in Messico, Ucraina e Turchia.

Scegliere, per lo più, è difficile. Se si tratta di lavoro però, sembra essere, quasi impossibile. Tanto che a molti capita di ritrovarsi a fare qualcosa, senza sapere neppure il perché. Tante le svolte incontrate per strada che alla fine, proprio quando si è arrivati a conquistare un lavoro, ci si accorge che proprio quell’impiego, tanto agognato, non era quello che si voleva. E il tempo in ufficio rischia di diventare un tempo “spersonalizzato” in cui è sempre più difficile esprimere e affermare qualità e ambizioni.

Così se trovare l’anima gemella è complesso, riuscire ad avvicinarsi ad un impiego adatto a sé pare chiamare in causa un’arte ancor più segreta e inaccessibile. Tanto che quasi un italiano su cinque è sicuro di avere sbagliato tipo di carriera e un altro 23 per cento non ha alcuna certezza in merito. A dirlo è l’ultima indagine globale realizzata da Kelly Services, società di servizi per la gestione delle risorse umane, su un campione di 155 mila lavoratori di cui quasi 20 mila in Italia. A pensare di avere sbagliato carriera sono soprattutto le donne mentre, a livello regionale, gli italiani più insoddisfatti si trovano in Molise, Piemonte, Sicilia e Toscana.
L'insoddisfazione e la mancata identificazione
L’attività professionale ha uno stretto legame con quello che s’agita dentro ciascuno in termini di affermazione, ambizione e realizzazione delle proprie qualità. Ritrovarsi in un posto che non offre il necessario sviluppo a queste energie può avere conseguenze molto negative sia a livello di singolo lavoratore sia, più complessivamente, a livello aziendale. “Nella società contemporanea – ci ha detto Stefano Giorgetti direttore di Kelly Services Italia - la soddisfazione rispetto alla propria condizione lavorativa gioca un ruolo sempre più importante. E’ infatti una tendenza diffusa, in Italia come in molti altri Paesi europei, quella di aumentare il monte ore lavorativo quotidiano. Per questo diventa fondamentale che ciascuno cerchi di scegliere una professione nella quale “riconoscersi”; inoltre i rapidi cambiamenti tecnologici, e non solo, che caratterizzano i tempi “moderni” rendono necessari momenti di aggiornamento e di studio che possono essere colti come opportunità solo se il lavoratore vive la propria professione in modo partecipativo. Senza contare il fatto che un lavoratore impiegato in un’occupazione appagante, oltre ad essere più sereno anche nella vita privata, darà performance nettamente migliori rispetto a quelle di un collega demotivato, a beneficio di tutta l’azienda”.
La quota di insoddisfatti che non possono cambiare, spiega Giuseppe Rustioni Segretario Generale di FAES, “è un dato allarmante che mette in luce la necessità di preparare i giovani non solo da un punto di vista strettamente nozionistico ma anche comportamentale. E’ infatti di estrema importanza che quando un giovane sceglie il proprio percorso universitario, e quindi professionale, sia consapevole delle proprie capacità e attitudini, ma non sempre questo è possibile; perchè il lavoro comporta certamente fatica, ma può essere anche “passione”.
La difficile conversione
Purtroppo accorgersi di avere sbagliato, così nella vita come nel lavoro, non basta. Anzi rischia di aggravare ancora di più le cose. Perché “riparare” non è affatto facile. Quasi impossibile tirare le conseguenze e decidere di lasciare l’impiego che si è svelato “sbagliato”. Tanto che al contrario, quasi sempre ci si ritrova a continuare a fare quel che si è scoperto essere inadatto a sé. La ragione principale va rintracciata, ovviamente, nelle condizioni economiche. Le indica infatti come fattore principale il 44 per cento delle donne e il 42 per cento degli uomini. Tra gli altri motivi indicati, il tempo necessario per “riconvertirsi” al nuovo impiego (rispettivamente il 38 e il 35 per cento) e poi le motivazioni collegate in vario modo alla famiglia (il 17 e il 18 per cento).
Cambiare carriera non è facile, conferma Giorgetti, “e spesso comporta, almeno inizialmente, una forte dose di stress. Questo non significa che non sia possibile cambiare lavoro, ma che per farlo è fondamentale prepararsi nel miglior modo possibile”. Se si vuole intraprendere questa strada, per Giorgetti, è necessario “investire in formazione e frequentare corsi inerenti alla nuova professione scelta”. Ma non basta. “Dove fosse possibile, è sicuramente auspicabile cambiare lavoro all’interno della stessa azienda presso la quale si è occupati, con conseguenti benefici sia per l’organizzazione, che non dovrà impegnarsi nel “trasferimento della cultura” aziendale ad un nuovo assunto, che per il lavoratore, che potrà così concentrarsi esclusivamente ad imparare i nuovi compiti”.
Il lavoro sbagliato nel mondo
Se si fa un confronto internazionale, la quota di italiani che hanno ammesso di aver sbagliato carriera è simile a quella riscontrata negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Olanda, Francia, Svizzera, Spagna, Germania e Irlanda. Tutte con una percentuale di “certamente insoddisfatti” compresa nella forchetta 15-20 per cento. Altrove invece i dati sono ancora più elevati e raggiungono i picchi in Messico (65 per cento), Ucraina (42 per cento) e Turchia (40 per cento).
La formazione e i consigli ai giovani
Quanto al sistema formativo, per il 51 per cento dei lavoratori intervistati, scuola e università mancano il loro compito di preparare in modo soddisfacente alla vita lavorativa. In Italia lo pensano il 38 per cento mentre una quota simile (il 39 per cento) ritiene invece che l’educazione scolastica ricevuta sia stata adeguata. Le percentuali più basse, a livello regionale, si trovano in Friuli Venezia Giulia, Molise, Basilicata, Puglia, Sardegna e Toscana. Quanto alle scuole di specializzazione e ai master, quasi sette su dieci pensa che siano stati utili ai fini lavorativi, anche se molti ritengono che si dovrebbero sviluppare ancora di più gli aspetti pratici del corso a scapito di quelli più teorici.
E ai giovani? Giorgetti si sente di raccomandare soprattutto esperienza: “consiglio a tutti i ragazzi di sfruttare i periodi in cui è richiesto uno scarso impegno nello studio per dedicarsi a brevi esperienze lavorative come stage e tirocini, anche all’estero. Questo sia nell’ottica di individuare il percorso professionale più adatto a sviluppare le proprie attitudini, che di costruire un curriculum vitae ricco e competitivo”.

http://miojob.repubblica.it/

Martedì, 24 Giugno, 2008 - 16:10

EHI TU! MA LO SAI CHE...

EHI TU! MA LO SAI CHE...
*... non tutti pensano che ci sia un emergenza sicurezza, per la
quale la sera è meglio starsene in casa per i fatti propri, piuttosto
che uscire, vivere le strade e le piazze, conoscersi;
*... non tutti pensano che sia giusto imputare i problemi sociali ai
più poveri, neanche se oggi questi sono nomadi e immigrati e allora
riesce più facile perchè si può far leva sulla diffidenza naturale della
gente;
*... non tutti trovano accettabile che fascisti o ex tali abbiano
agibilità, nelle istituzioni come nelle strade, con aggressioni
quotidiane verso chi appare "diverso"
*... non tutti vogliono una società che isola le persone dai loro
vicini, una società senza solidarietà e in cui l'individuo è solo e
passivo davanti a quanto gli dicono media e cultura dominante
*...nulla è inevitabile, l'alternativa è qui e adesso, nel tuo quartiere.
Proponiamo a tutti una serata vissuta con uno spirito diverso da
quello che è la normalità, una serata in cui ci si conosca, si
chiacchieri, una serata per scoprire le associazioni che operano nel
quartiere (che saranno presenti con un banchetto), una serata in cui
sentirsi di sinistra senza ortodossie, una serata tutti insieme perchè
certi valori non possono che essere collettivi.
Mercoledì 25 giugno alla cooperativa la liberazione, via lomellina 14.
Dalle 18 saranno presenti le associazioni coi loro banchetti, alle 20
cena sociale, alle 21.30 proieaione del film “Bye Bye Berlusconi”.
musica dal vivo.
info e prenotazioni: retazione@libero.it

o chiamare Ilaria 3403747262

firmato: giovani sinistri, terzinternazionalisti, anarcoinsurrezionalisti,
partigiani, fricchettoni, fidel castro, sbirri in borghese (che tanto li si
riconosce), cazzoni vari, futuri premi nobel del quartiere e gente
varia di sinistra.

Martedì, 24 Giugno, 2008 - 14:21

Salviamo il Parco Ticinello e Cascina Campazzo

Salviamo il Parco Ticinello e Cascina Campazzo
(Informativa 06/08)

La storia sofferta dal Parco del Ticinello
Il Parco Ticinello, nell’area sud della città, limitrofo all’abitato, insiste su un’area di 880.000 mq. Dal 1982 il Comune di Milano ha inserito nelle sue previsioni urbanistiche questo progetto che prevede la commistione della fruizione pubblica e dell’attività agricola.
All’interno dell’area è compresa la struttura di Cascina Campazzo, il vero cuore del parco, sia per la presenza di un allevamento di bovini da latte, sia per la rilevanza della struttura architettonica, con l’oratorio, l’antico forno a legna e altri edifici monumentali che risalgono al XVIII e al XIX secolo.
Questo progetto, pur appoggiato e fortemente voluto dalla popolazione circostante, che già in parte ne gode grazie alla presenza dell’Associazione Parco Ticinello, ha trovato grandi difficoltà nella sua realizzazione, soprattutto in forza dell’atteggiamento del proprietario di buona parte della superficie. Tuttavia, nel 2003, circa metà delle aree destinate a parco sono state acquisite dal Comune di Milano attraverso l’esproprio e un investimento di circa 10 milioni di Euro.

La situazione oggi
L’ attuale Amministrazione comunale,  dopo il suo insediamento, ha operato per approvare gli strumenti urbanistici finalizzati alla realizzazione del parco, strumenti decaduti nel maggio 2006. La scorsa primavera ha riapprovato, con delibera di Consiglio  n. 20 del 23.04.07, la variante al Piano regolatore del Parco del Ticinello. Tale documento ribadisce la presenza di un’agricoltura reale nel parco e l’indispensabilità della Cascina Campazzo a questo scopo. Nel successivo mese di giugno ha poi adottato, con delibera di Giunta  n. 1374 del 27.09.07, il progetto preliminare del parco. Inoltre ha anticipato, nella revisione di bilancio del settembre scorso, con delibera di Consiglio  n. 5 del 27.09.07,  lo stanziamento per le opere del primo lotto del parco e per l’acquisizione di Cascina Campazzo già prevista per il 2007.
Il passaggio successivo, indispensabile per la realizzazione definitiva del parco, sarebbe stata la Dichiarazione di Pubblica Utilità della cascina; la qual cosa avrebbe consentito la sua acquisizione, tramite esproprio. Questo passaggio è competenza dell’Assessore allo Sviluppo del Territorio Carlo Masseroli.
Nel mese di novembre l’assessore stesso ha però interrotto l’iter amministrativo della pratica, motivandola con l’avvio di una trattativa con la proprietà che avrebbe raggiunto gli stessi obiettivi in tempi brevi.

L’urgenza di chiudere la partita
Attorno a Cascina Campazzo si sta registrando lo scontro determinante per il futuro del Parco Ticinello. Il proprietario con una serie di azioni legali intende allontanare dalla cascina l’agricoltore affittuario. In assenza dell’attività agricola tutto il progetto Parco Ticinello, e la cascina in particolare, non avrebbe più ragione d’essere.
Il tribunale, su richiesta della proprietà, ha emesso un’ordinanza  di inibizione di manifestazioni pubbliche nell’ambito della cascina. Così finiscono le famose feste sull’aia che coinvolgevano migliaia di abitanti della città.
Nel frattempo, a seguito di una sentenza della Cassazione, per l’agricoltore lo sfratto è diventato esecutivo. Dopo due rinvii, il 19 settembre prossimo, l’ufficiale giudiziario si presenterà all’ingresso di Cascina Campazzo.

Giugno 2008
Associazione per il Parco Sud Milano

Lunedì, 23 Giugno, 2008 - 16:33

I sopravvissuti bambini alla strage di Marzabotto

Marzabotto I SOPRAVVISSUTI I BAMBINI DEL '44 SCAMPATI ALLA STRAGE DEI NAZISTI
Linda Chiaramonte
MARZABOTTO (BOLOGNA)
www.ilmanifesto.it

Nove ergastoli per omicidio plurimo continuato e aggravato, tre dei quali definitivi. Il soldato semplice Spieler, condannato in primo grado, assolto, e Kusterer, comandante di squadra della terza compagnia, assolto in primo grado, condannato in appello all'ergastolo. Si è conclusa così, oltre alla richiesta di risarcimento danni alle parti civili e danno morale alle comunità, la fase del giudizio di merito del processo d'appello nei confronti dei 17 ufficiali e sottufficiali delle SS del 16° reparto esplorante, comandato dal maggiore Reder, responsabili degli eccidi di Marzabotto che causarono la morte di più di 800 civili, prevalentemente donne e bambini, compiuti il 29 e il 30 settembre, l'1 e il 5 ottobre 1944. Il procedimento penale è stato istruito dal procuratore militare della Repubblica Marco De Paolis, pubblica accusa a La Spezia, e avviato nella primavera 2005. Il dibattimento è entrato nel vivo l'8 febbraio 2006, giunto a sentenza il 13 gennaio 2007 dopo 32 udienze (sentenza di secondo grado emessa il 7 maggio del 2008), più di 80 testimoni tedeschi, di cui solo due si sono presentati in aula (probabilmente in quanto feriti prima dell'arrivo del reparto a Marzabotto), e 130 fra sopravvissuti e familiari delle vittime. Mai prima di La Spezia era stata pronunciata una sentenza. A raccontare le atrocità viste e subite o ascoltate dai ricordi dei familiari, anziani che hanno fatto riaffiorare la memoria della loro infanzia, con l'emozione e l'orrore ancora vivi come se tutto fosse accaduto solo pochi giorni prima. Sono stati ribattezzati «i bambini del '44», fra loro una sopravvissuta dopo aver testimoniato commossa non trovando più le parole, ha concluso «il resto ce lo portiamo ancora addosso». Ora si apre la fase della Cassazione nel caso la difesa volesse ricorrere, entro i primi di giugno sarà depositata la motivazione, da quella data ricorreranno altri 45 giorni prima di passare in giudicato. Nel frattempo la procura territoriale di Monaco di Baviera ha richiesto l'esecuzione della pena (gli arresti domiciliari) per due degli imputati, riconoscendo così l'efficacia della sentenza italiana e aprendo un procedimento penale omologo nei confronti degli stessi imputati. Una vittoria che arriva a 64 anni di distanza nella sede della procura generale militare di Roma, Palazzo Cesi, lo stesso in cui nel '94 il procuratore Intelisano, all'epoca accusa nel processo Priebke, si imbatté in un carteggio fra ministeri che rivelò la presenza di documenti di cui non vi era traccia a cui seguì un'indagine interna che portò alla luce l'armadio della vergogna, che si scoprì contenere 695 fascicoli su altrettanti episodi di eccidi compiuti su tutta la penisola, in particolare fra Toscana ed Emilia Romagna. Una volta rinvenuti furono inviati alle procure militari territorialmente competenti, La Spezia nel caso di Toscana, Emilia, Liguria. Dal '94 però sulla questione cala un silenzio lungo otto anni, interrotto solo nel 2002. Il primo insabbiamento risale al 1960, erano gli anni del boom economico, l'Italia voleva voltare pagina e lasciarsi alle spalle i ricordi di guerra. Fu l'allora procuratore generale Santacroce a porre un timbro di provvisoria archiviazione su tutti i fascicoli compiendo così «occultamento di fascicoli di crimini di guerra». Fra il 2001 e il 2002 le parti offese, familiari e istituzioni del territorio di Marzabotto, richiedono lo sviluppo delle indagini che si svolgeranno fino al 2005 e comporteranno le acquisizioni di tutti gli atti del processo del '51 al maggiore Reder svoltosi a Bologna, che si concluse con la condanna al carcere a vita (Reder fu rilasciato nell''85, morì nel '91), oltre ai verbali e alle testimonianze raccolte dalla war crime commission, ufficio investigativo della V armata americana che fra il '44 e il '48 raccolse le testimonianze dei prigionieri di guerra e dei sopravvissuti italiani agli eccidi (dal '48 con la Costituzione le competenze giurisdizionali passarono alle autorità di polizia giudiziaria italiana), oltre a tutte le schede matricolari personali e di ricovero dei militari presso gli ospedali. Fino ad arrivare al 2005 data d'inizio della fase processuale, in cui l'avvocato Andrea Speranzoni ha rappresentato 83 parti civili, il collega Bonetti 18, e il legale Giuseppe Giampaolo le istituzioni, fra cui Regione, Provincia e Comuni coinvolti. Fra i pochi sopravvissuti alle carneficine del 29 settembre '44 in territorio di Marzabotto Fernando Piretti, all'epoca 9 anni, oggi 72. E' contento il signor Piretti, ma è una gioia contenuta la sua, «è andata bene» dice «sono soddisfatto per come è andato il processo finora, spero solo che non si vada in Cassazione». L'esperienza del processo è stata emotivamente pesante per tutti i testimoni, che hanno voluto essere presenti anche all'appello di Roma. Piretti, che ha testimoniato cinque volte, commenta: «a raccontarla adesso sembra una favola, ma quelle cose lì non si possono mica dimenticare. Se chiudo gli occhi e ripenso ai fatti di allora è come se li vedessi. Li ho impressi nella mente. Rinnovare la memoria mi emoziona ancora troppo, mi viene il magone».
Sul lungo iter giudiziario usa parole dure: «Sono trascorsi 60 anni per colpa dell'armadio della vergogna, io il processo l'avrei fatto a chi ha nascosto. Non perdonerò mai chi da bambino mi ha tolto l'affetto della mamma, è da 60 anni che aspetto il suo conforto, ma lei è rimasta là, nell'oratorio di Cerpiano quel 29 settembre». Fernando Piretti è sopravvissuto all'eccidio di Cerpiano dove il mattino del 29 settembre 47 persone, più di trenta donne e una dozzina di bambini, furono riunite e rinchiuse nell'oratorio dove le SS gettarono bombe a mano dalle finestre. Piretti, ferito alla spalla si salvò, fu il corpo della madre a fargli da scudo, poi rimase riparato dai corpi dei morti. Oltre alla madre morì la sorella di 11 anni e alcuni cugini. Il padre era nascosto nel bosco, i tre fratelli più grandi erano partigiani. Il giorno dopo si svegliò con intorno solo cadaveri e un lago di sangue, il viso sporco, forse fu questo a salvarlo quando i tedeschi tornarono per finire a fucilate chi era rimasto vivo. A portarlo via di lì un giovane arrivato a cercare la madre, anche lei fra le vittime. Insieme a Piretti si salvò Paola Rossi di 7 anni e la maestra, la suora orsolina Antonietta Benni. La famiglia Piretti solo un mese prima si era rifugiata a Cerpiano da Gardelletta, località più a valle, pensando, come molti altri sfollati, che quei luoghi impervi di montagna fossero più sicuri.
Nei giorni precedenti c'erano stati molti rastrellamenti, case e bestiame bruciati. Piretti trascorse alcuni giorni nello stabile del massacro, poi con il padre s'incamminò attraverso i boschi fino a Marzabotto, e in camion fino Bologna. Qualche giorno dopo il padre morì in ospedale, lasciandolo «orfano di vittime civili». Insieme ad un fratello raggiunse in Romagna la sorella sposata. Dopo alcuni anni tornò a vivere nei luoghi degli eccidi. Secondo l'avvocato Speranzoni il processo, dice, «ha confermato la premeditazione di un'operazione studiata a tavolino: lo sterminio di massa di un'intera popolazione. Una comunità cancellata da componenti delle SS specializzati in uccisioni di massa, esperienza fatta nei campi di sterminio dell'est europeo, per bonificare l'area, zoccolo duro della resistenza partigiana. La 16esima divisione aveva dei precedenti: era responsabile della strage di S. Anna di Stazzema». «La sentenza», continua, «ha dimostrato come, a distanza di più di 60 anni, sia stato possibile raggiungere la prova di responsabilità di crimini contro l'umanità, cosa che avrebbe riguardato un numero molto più ampio di colpevoli se celebrata anni prima».
In fase dibattimentale è emerso che né durante gli eccidi, né in precedenza, vi furono combattimenti con i partigiani, la maggior parte degli eccidi avvennero in località dove non erano presenti partigiani. Le perdite fra loro furono modeste, circa una ventina, tutte le vittime erano civili inermi. Le azioni avvennero nelle località in cui operava la brigata Stella Rossa guidata da Mario Musolesi detto Lupo. Nessun'altra unità tedesca compì in Italia stragi paragonabili a quella di Marzabotto. Sulla sentenza è laconico l'avvocato di Kusterer Nicola Canestrini, dopo la condanna in appello del suo assistito seguita all'assoluzione in primo grado, preferisce non commentare prima della pubblicazione delle motivazioni.
Nel gennaio 2006, in occasione del processo penale di primo grado, è nata l'associazione delle vittime degli eccidi nazifascisti perpetrati sui territori dei comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi dalla primavera all'ottobre del 1944, composta da più di 300 tra superstiti, familiari ed eredi, con lo scopo di coordinare la tutela legale familiari.
Lunedì, 23 Giugno, 2008 - 16:32

LA SINISTRA PER FARE. INCONTRO A ROMA

LA SINISTRA PER FARE. INCONTRO A ROMA
www.ilmanifesto.it

«La Sinistra del fare», è il titolo che abbiamo dato all'incontro di domenica 22 giugno al Ridotto dell'Eliseo a Roma per discutere con le varie realtà interessate a un soggetto unitario e plurale della sinistra su un programma di lavoro comune per i prossimi mesi. Reagire allo stordimento delle sconfitte tornando ai luoghi di origine e alle relazioni che rassicurano è forse un gesto spontaneo, ma probabilmente non è il più adatto a chi si trova in cammino. Insomma, per chi transita nelle «terre di mezzo», tra il non più e il non ancora, il rischio di sbagliare è grande. Questa sembra la situazione di coloro che hanno creduto e credono nella Sinistra. Tuttavia, la disfatta elettorale subita nelle recenti elezioni e l'ondata di destra che sta attraversando il paese con inquietanti pulsioni autoritarie, l'azione che tende a ridimensionare l'autonomia del sindacato e a porlo in una condizione di subalternità, l'aggressività delle spinte neoconfessionali, rendono necessaria una capacità di risposta. La composizione del nuovo parlamento italiano dimostra infatti che il cammino di una svolta «autoritaria» nel nostro paese ha guadagnato spazi enormi nelle coscienze. Occorre ripartire con la costruzione in Italia di una forza di sinistra che nasca da un processo fondato sulla partecipazione e sia capace di interpretare la fase difficile e complessa che sta di fronte a tutti noi. A questa semplificazione autoritaria noi, i partiti e i movimenti della sinistra, non sappiamo infatti ancora contrapporre un'idea nuova di «cittadinanza», che agisca all'interno di nuovi «confini» della politica, non più solo locali o nazionali, ma giocati sui molteplici contesti in cui il capitalismo globale agisce, a partire dai corpi e dalle relazioni private. Non solo in Italia, ma anche nel contesto europeo.
Per questo motivo noi che crediamo nella necessità di una Sinistra unita. Vogliamo proporre non formule politiche, ma un modo per recuperare l'azione collettiva che dia nuovamente senso a una opposizione reale nel paese. Insomma una Sinistra del fare. La sfida è infatti quella di riuscire a creare i presupposti di una visione comune, una «collettività riconoscibile», in modo che le persone, pur se imbrigliate nella confusione dei loro molteplici desideri e dei loro molteplici bisogni, assumano consapevolezza di come il proprio agire possa determinare una massa critica capace di attirare consenso. Una sinistra che inizi a mettere da parte la frammentazione politico-culturale, sempre più narcisistica e separata, che spesso percorre anche i movimenti e che non può essere affrontata con il ritorno a strutture di partito così come le abbiamo sinora conosciute. Per questo motivo pensiamo sia necessario trovare modi di azione comune tra le reti esistenti di più soggetti, partitici e non. Modi che consentano ai soggetti partecipi di disporre di larghi elementi di autonomia, ma che rendano possibile assumere anche la responsabilità di un funzionamento collettivo. Tutto questo per tornare a essere presenti nel paese con le nostre visioni, per fare in modo che i conflitti creino condivisione e consenso, per fare opposizione alla deriva che sembra paralizzare l'Italia.
Maria Luisa Boccia, Elio Bonfanti, Bruno Ceccarelli, Paolo Ciofi, Anna Cotone, Piero Di Siena, Antonello Falomi, Pietro Folena, Ciro Pesacane, Bianca Pomeranzi, Mario Sai
Domenica, 22 Giugno, 2008 - 08:37

Sottopasso in via Molinetto da Lorenteggio

Ieri pomeriggio - sabato 21 giugno - si è svolta una manifestazione per chiedere chiarezza sulla realizzazione di un sottopasso ciclopedonale in via Molinetto da Lorenteggio, ai confini con Corsico. Molta la gente scesa in strada che ha voluto simbolicamente occupare i binari della ferrovia Milano-Mortara-. R.F.I. aveva sospeso la circolazione dei treni perchè le ruspe avrebbero dovuto inziare lo scavo nel territorio di Milano. La gente chiedeva a gran voce chiarezza sul progetto, maggiore informazione e perchè il sottopasso deve cancellare un parcheggio pubblico. Giovedì prossimo una delegazione di cittadini si recherà in Consiglio di Zona 6 per presentare una mozione nella quale si chiede l'acquisizione di tutta la documentazione, espletare i controlli e la regolarità delle opere in corso. Ancora una volta i cittadini si sentono presi in giro dalle Istituzioni che non li hanno informati.

A seguire il testo dell'interrogzione che presenterò in Consiglio di zona 6.

 

 

INTERROGAZIONE URGENTE
 

Realizzazione di un sottopasso ciclopedonale in via Molinetto di Lorenteggio

Premesso che:

-         si stanno facendo lavori per il raddoppio della ferrovia Milano – Mortara; 

-         detti lavori sono stati sospesi in data 2 maggio 2008 dal Ministero dell’Ambiente in quanto iniziati senza verifica di conformità dell’opera al decreto VIA;

-         al confine tra i comuni di Milano e Corsico, nei pressi del passaggio a livello di via Molinetto di Lorenteggio, la società SACAIM sta realizzando un sottopasso ciclopedonale in connessione col raddoppio ferroviario;

Preso atto che:

-         il sottopasso insiste ora prevalentemente nel Comune di Milano e interessa un’area pertinente a parcheggi per residenti che di fatto verranno cancellati;
 

Appurato che:

-         da documentazione in nostro possesso il tracciato del sottopasso ciclopedonale è difforme dal progetto; 
-         non risultano essere state richieste e/o depositate varianti al Comune di Corsico;
-         non risulta alcuna documentazione presso l’ufficio tecnico del Consiglio di Zona 6;
-         che non vi è sul cantiere l’indicazione prescritta dell’opera, delle autorizzazioni, dei responsabili

SI CHIEDE

AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI ZONA 6
 

di attivarsi  presso i competenti settori del Comune di Milano , gli assessorati Viabilità e Traffico e Lavori Pubblici, per acquisire la documentazione necessaria a espletare i dovuti controlli e la regolarità delle opere in corso.

Si chiede altresì di attivare la Polizia Municipale ad effettuare i dovuti controlli.

Milano 26 giugno 2008

 Angelo Valdameri Lista Uniti con Dario Fo

Massimo Camerini – Socialisti

Elisa Scarano – Verdi

Roberto Acerboni - PRC

 

 

 

Venerdì, 20 Giugno, 2008 - 16:24

Basilio Rizzo: morti sul lavoro e utilizzo delle forze

 
 
SEDUTA DEL CONSIGLIO COMUNALE DEL
16 GIUGNO 2008
 
ARTICOLO 21
 
- OMISSIS -
 
 
Il Presidente Palmeri così interviene:
“Grazie a lei, consigliere Fidanza. La parola al consigliere Rizzo”.
Il consigliere Rizzo così interviene:
“Presidente, desidero innanzitutto ringraziarla perché - superando gli aspetti formali - ha voluto ricordare i caduti sul lavoro che non sono del nostro Comune, ma sono della nostra area. La ringrazio, perché penso che ci sia bisogno su questo tema di trovare un grande impegno di tutto il Consiglio comunale. Noi abbiamo come primo argomento della nostra azione politica la questione della sicurezza, però lo decliniamo poco su questo aspetto del lavoro, che produce morti; mentre siamo assai più attenti su quell’altro produce paure, produce disagi, ma non produce morti. Allora, io sono a chiedere, se ci fosse qualcuno in rappresentanza della Giunta, oltre a Vagliati lo direi a qualcuno dei rappresentanti della Giunta, ma in particolare al Sindaco, che faccia come ha fatto sulla questione della sicurezza, che ha chiamato tutta la città a una grande manifestazione per far sentire qual era il cuore di Milano su questo terreno. Perché il nostro Sindaco non chiama tutta la città a mobilitarsi sulla questione della sicurezza e contro le morti sul lavoro? Io credo che ci sia bisogno di far sentire che la nostra città è unita su questo terreno e penso che sarebbe una testimonianza di sensibilità e di attenzione su quello che, ripeto, produce: è una vera e propria strage che quotidianamente si determina nel nostro Paese. Perché quando si dice che ci sono oltre mille morti all’anno, significa che ogni giorno, mediamente, ci sono tre o quattro persone - di alcune si sa, di alcune non si sa - che muoiono per esercitare il loro diritto al lavoro. E vorrei anche aggiungere un altro taglio che dobbiamo dare alla nostra… le ripeto, sarei contento, se non lo ritiene di poterlo fare il Sindaco, pensiamola come Presidenza del Consiglio comunale, una grande mobilitazione dei cittadini milanesi su questo tema, che chiami tutti a far sentire la voce della città. E vorrei dire anche che, non per motivi polemici, ma credo che sia in qualche modo emblematico e simbolico il fatto che l’edificio nel quale sono morti i due operatori viene costruito da imprese che fanno riferimento ai vertici dell’Assimpredil. Non è che in questo ci sia la responsabilità diretta, però se noi non cominciamo a ragionare sul fatto che chi è più consapevole, anche quelli che sono in alto nella catena degli appalti e dei subappalti in qualche modo si devono far carico dei problemi, delle modalità di lavoro nei loro cantieri e, invece, non si applichi la politica delle scimmiette che non ascoltano, non vedono e non parlano, non ce ne tiriamo fuori da questo problema. Perché questo problema potrà essere affrontato seriamente quando una sorta di responsabilità oggettiva si determini ai vertici delle catene di subappalti, che portano agli ultimi livelli a far lavorare dei diseredati a 3 euro all’ora, senza nessuna garanzia e con il fatto che, se si interviene su quello, si tolgono anche le condizioni di sostentamento per molti che devono vivere con quei 3 euro all’ora. Noi dobbiamo imporre delle regole che impediscano che questa situazione vada avanti. Quindi legare tutta la catena dal vertice degli appalti fino all’ultimo subappalto mi sembra una delle misure sulle quali dobbiamo lavorare.
Concludo su un altro problema, perché io ho a cuore sempre la dignità di questo Consiglio e la sua responsabilità di intervenire sulle questioni che riguardano la città. Oggi c’è il dibattito sull’utilizzo delle Forze Armate nel presidio della città: il Consiglio comunale può dire qualcosa su questo prima che si decida? Cioè, sapere che cosa il Consiglio comunale pensa di questa scelta, di questa ipotesi che viene affrontata? Posso chiedere, invece, dei tanti sopralluoghi (che chi vuole li fa) da parte della Commissione Sicurezza, monotema, sui nomadi, si affronti questa discussione nella nostra Commissione Sicurezza per dire cosa ne pensa la rappresentanza della città su questa ipotesi che viene ventilata? Perché io credo che sia utile ascoltare che cosa ne pensa la città, che cosa ne pensano le Forze dell’Ordine, che cosa ne pensano le forze sociali. Perché io penso che la città di Milano potrebbe anche dare una lezione su questo terreno, che valga anche per tutta Italia. Grazie”.
Il Presidente Palmeri così interviene:
“Grazie a lei, consigliere Rizzo, anche delle proposte sul secondo tema che (dal punto di vista organizzativo e solo da quello, ovviamente) è più semplice. Trasmetterò il testo del suo intervento al Presidente della Commissione Sicurezza; se non ci sarà risposta durante questa settimana, ovviamente esistono gli strumenti che coinvolgono anche direttamente la mia responsabilità, affinché sia convocata una Commissione Sicurezza che abbia come oggetto proprio le imminenti decisioni del Governo, che certamente potrebbero riguardare anche la nostra città.
Sul primo tema c’è molto da lavorare e dovremmo - secondo me - ipotizzare un incontro a latere del momento istituzionale, per capire davvero il Consiglio comunale cosa può dire, anche in relazione di appello etico che potrebbe rivolgere alle forze attive presenti nel nostro territorio. Basti pensare a cos’ha fatto Confindustria con le aziende iscritte appunto all’organizzazione degli industriali in Sicilia, quindi le ha escluse qualora non avessero un codice etico nei confronti di rapporti con la criminalità presente sul territorio. Sono tutti temi che potrebbero essere anche oggetto di coinvolgimento delle Forze positive presenti nel nostro territorio, affinché isolino quelle parti dell’attività economica che, invece, positive non sono e che producono degli effetti così devastanti, come lei ha detto. Quindi certamente su questo tema torneremo. Grazie, consigliere Rizzo. La parola al Consigliere Brandirali; successivamente interverrà il consigliere Comotti”.
 
- OMISSIS -
 

Venerdì, 20 Giugno, 2008 - 16:09

E' tempo di pensare ad una costituente ecologica

La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile.
1.8.1994, Colloqui di Dobbiaco, Il Viaggiatore leggero 1996
E' tempo di pensare ad una costituente ecologica.
http://www.alexanderlanger.org
1
Abbiamo creato falsa ricchezza per combattere false povertà - Re Mida patrono del nostro tempo

Da qualche secolo ed in rapido crescendo si produce falsa ricchezza per sfuggire a false povertà. Di tale falsa ricchezza si può anche perire, come di sovrappeso, sovramedicazione, surriscaldamento ecc. Falso benessere come liberazione da supposta indigenza è la nostra malattia del secolo, nella parte industrializzata e "sviluppata" del pianeta. Ci si è liberati di tanto lavoro manuale, avversità naturali, malattie, fatiche, debolezze - forse tra poco anche della morte naturale - in cambio abbiamo radiazioni nucleari, montagne di rifiuti, consunzione della fantasia e dei desideri. Tutto è diventato fattibile ed acquistabile, ma è venuto a mancare ogni equilibrio.

Non solo l'apprendista stregone è il personaggio-simbolo del nostro tempo. L'antico re Mida - che ottenne il compimento del suo desiderio che ogni cosa che toccava si trasformasse in oro - ci appare come il vero patrono dei culti del progresso e dello sviluppo, l'attualissimo predecessore dei benefici della nostra civiltà.

2
Non si può più far finta si non sapere, l'allarme è ormai suonato da almeno un quarto di secolo ed ha generato solo provvedimenti frammentari e settoriali

Da qualche decennio e con sempre maggiori dettagli si conoscono praticamente tutti gli aspetti di questo impoverimento da cosiddetto benessere. Quasi non si sta più a sentire quando si recita, più o meno completa, la litania delle catastrofi ambientali.

Un quarto di secolo è stato impiegato a scoprire, analizzare, diagnosticare e prognosticare, a dare l'allarme, a lanciare appelli e proclami, a varare leggi e convenzioni, a creare istituzioni incaricate a rimediare. La tutela tecnica dell'ambiente è notevolmente migliorata nel mondo industrializzato, si sono registrati singoli successi, alcune acque si stanno rivitalizzando, certe specie in pericolo di estinzione si sono salvate, cominciano a circolare detersivi, carburanti ed imballaggi "ecologici"...

3
Perchè l'allarme non ha prodotto la svolta? E' già finito l'intervallo di lucidità (Stoccolma 1972 - Rio 1992)?

Allarmi catastrofisti, lamenti, manifestazioni, boicottaggi, raccolte di firme...: tutto ciò ha aiutato a riconoscere l'emergenza: le malattie sono state diagnosticate, le possibilità di guarigione studiate e discusse - terapie complessive non sono state ancora attuate. E soprattutto: appare tutt'altro che assicurata la volontà di guarigione, se ci fosse, produrrebbe azioni e segnali ben più determinati. Visto però che le cause dell'emergenza ecologica non risalgono ad una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga misura.

C'è da meravigliarsi se oggi persino la diagnosi risulta controversa? Silvio Berlusconi, a capo del governo della cosiddetta Seconda Repubblica, sin dal suo discorso inaugurale alla Camera ha ritenuto di dover ironizzare sull'allarme per l'effetto-serra: "forse il nostro pianeta comincerà ad intiepidirsi in un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio Giulio Cesare". C'è da pensare che dunque ci resta ancora tanto tempo per cementificare, dissipare, disboscare!

Vuol dire che l'intervallo di lucidità che si potrebbe situare tra le due conferenze mondiali sull'ambiente (Stoccolma 1972 - Rio de Janeiro 1992) è già terminato? Si è fatto il pieno di lamenti ed allarmi e si pensa ora che la riunificazione del mondo tra Est e Ovest vada celebrata con nuovi fasti di crescita?

4
"Sviluppo sostenibile" - pietra filosofale o nuova formula mistificatrice?

Da qualche anno (rapporto Brundtland, 1987) la formula magica dello "sviluppo sostenibile" sembra essere la quadratura del cerchio così lungamente cercata. Nella formula è racchiusa una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, di una qualche autolimitazione della parte altamente industrializzata ed armata dell'umanità, come pure l'idea che alla lunga sia meglio puntare sull'equilibrio piuttosto che sulla competizione selvaggia; ma il termine "sviluppo" (o crescita, come in realtà si dovrebbe dire senza tanti infingimenti) è rimasto parte del nuovo e virtuoso binomio. Purtroppo basta guardare ai magri risultati della Conferenza di Rio per comprendere quanto lontani si sia ancora da una reale correzione di rotta. Sembra che il nuovo termine indichi piuttosto la propensione ad un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato ad usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di supervisione e tutela del Nord: non appare un obiettivo mobilitante per suscitare l'impeto globalmente necessario per la conversione ecologica.

5
A mali estremi, estremi rimedi? ("Muoia Sansone con tutti i filistei"? Eco-dittatura?)

Di fronte ai vicoli ciechi nei quali ci troviamo, può succedere che qualcuno tenti estreme vie d'uscita. Anche tra ecologisti, pur così propensi ad una cultura della moderazione e dell'equilibrio, ci può esserci chi - seppure oggi in posizione isolata - chi pensa a rimedi estremi. Scegliamone i due più rilevanti: la prima potrebbe essere caratterizzata con "muoia Sansone e tutti i filistei": la convinzione che la catastrofe ambientale sia inevitabile e non più rimediabile, e che pertanto tocchi mettere in conto disastri epocali come ne sono avvenuti altri nel corso dell'evoluzione del pianeta. In mancanza di aggiustamenti tempestivi ed efficaci, la svolta ecologica verso un nuovo equilibrio sostenibile verrebbe imposta da tali disastri.

L'altro "rimedio estremo" che si potrebbe agitare, sarebbe lo "Stato etico ecologico", l'eco-dirigismo o eco-autoritarismo possibilmente illuminato e possibilmente mondiale. Visto che l'umanità ha abusato della sua libertà, mettendo a repentaglio la propria sopravvivenza e quella dell'ambiente, qualcuno potrebbe auspicare una sorta di tutela esperta ed eticamente salda ed invocare la dittatura ecologica contro l'anarchia dei comportamenti anti-ambientali.

Si deve dire chiaramente che simili ipotetici "estremi rimedi" si situano al di fuori della politica - almeno di una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni o stati anti-etici (e quindi senz'altro deplorevoli), il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E l'attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcuno sforzo di tipo politico: per politica si intende l'esatto contrario della semplice accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza.

Quindi si dovrà cercare altrove la chiave per una politica ecologica, ed inevitabilmente ci si dovrà sottoporre alla fatica dell'intreccio assai complicato tra aspetti e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi, scientifici ed ambientali. Non esiste il colpo grosso, l'atto liberatorio tutto d'un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica, i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente.

6
La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? "Lentius, profundius, suavius", al posto di "citius, altius, fortius"

La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e controlli; e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un'alternativa globale - sociale, ecologica, culturale - non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario.

Nè singoli provvedimenti, nè un migliore "ministero dell'ambiente" nè una valutazione di impatto ambientale più accurata nè norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità - per quanto necessarie e sacrosante siano - potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile.

Sinora si è agiti all'insegna del motto olimpico "citius, altius, fortius" (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l'agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in "lentius, profundius, suavius" (più lento, più profondo, più dolce"), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall'essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.

Ecco perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate - come è ovvio - in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nell'identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che attui efficaci spunti per una correzione di rotta ed al tempo stesso sostenga e forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica.

7
Possibili priorità nella ricerca di un benessere durevole

I passi che qui si propongono - intrecciati ed interdipendenti tra loro - fanno parte di una visione favorevole al cambiamento e potrebbero a loro volta incoraggiare nuovi cambiamenti. Purchè ogni passo limitato e parziale si muova in una direzione chiara e comprensibile, ed i vantaggi non siano tutti rimandati ad un futuro impalpabile.

a) bilancio ecologico
Gli attuali bilanci pubblici e privati sono tutti basati su dati finanziari. Sintanto che non si avranno in tutti gli ambiti (Comune, Provincia, Regione, Stato, CE, ...) accurati bilanci della reale economia ambientale che facciano capire i reali "profitti" e le reali perdite, non sarà possibile sostituire gli attuali concetti di desiderabilità sociale, e tanto meno un cambiamento dell'ordine economico.

b) ridurre invece che aumentare i bilanci
Ogni discorso sulla necessità della svolta resta assurdo sino a quando la crescita economica resterà l'obiettivo economico di fondo e sino a quando i bilanci pubblici e privati punteranno ad aumentare di anno in anno. La parte industrializzata del pianeta dovrà finalmente decidersi alla crescita-zero e poi a qualche riduzione - naturalmente con la necessaria cautela e moderazione per non causare dei crolli sociali o economici.

c) favorire economie regionali invece che l'integrazione nel mercato mondiale
Sino a quando la concorrenza sul mercato mondiale resterà il parametro dell'economia, nessuna correzione di rotta in senso ecologico potrà attuarsi. La rigenerazione delle economie locali, invece, renderà possibile - tra l'altro - una gestione più moderata e controllabile dei bilanci, compreso quello ambientale.

d) sistemi tariffari e fiscali ecologici, verità dei costi
Di fronte ad un mercato che addirittura postula e premia comportamenti anti-ecologici, visto che non ne fa pagare i costi, si rende indispensabile un sistema fiscale e tariffario orientato in senso ambientale, che imponga almeno in parte una maggiore trasparenza e verità dei costi: imprenditori e consumatori devono accorgersi dei costi reali del massicio trasporto merci, degli imballaggi, del dispendio energetico, dell'inquinamento, del consumo di materie prime, ecc.

e) allargare e generalizzare la valutazione di impatto ambientale
Tutto quanto viene oggi costruito (opere, tecnologie, ecc.), produce impatti e conseguenze di dimensioni sinora sconosciute. La valutazione di impatto ambientale - nel senso più comprensivo di una reale valutazione delle conseguenze ecologiche, ma anche sociali e culturali a breve e lungo termine di ogni progetto - dovrà diventare il nocciolo di una nuova sapienza sociale, e va quindi adeguatamente ancorata negli ordinamenti. Così come altre società, passate o presenti, proteggevano con norme fondamentali e tabú (sulla guerra, l'ospitalità, l'incesto...) le loro scelte di fondo, oggi abbiamo bisogno di norme fondamentali a difesa della valutazione di impatto ambientale - non importa se si tratti di autostrade, missili, biotecnologie, forme di produzione di energia o introduzione di nuove sostanze chimiche di sintesi. Tale valutazione non potrà avvenire senza l'intervento dei più diretti interessati e postulerà una Corte ambientale a suo presidio.

f) redistribuzione del lavoro, garanzie sociali
Solo una vasta redistribuzione sociale del lavoro (e quindi dei "posti di lavoro" socialmente riconosciuti) permetterà la necessaria correzione di rotta. L'ammortamento sociale degli effetti prodotti da scelte di conversione ecologica (che si chiuda una fabbrica d'armi o un impianto chimico..) è un investimento importante ed utile quanto e più di tanti altri, e se si indennizzano i proprietari di terreni che devono cedere ad un'autostrada, non si vede perché altrettanto non debba avvenire nei confronti di operai o impiegati che devono cedere alla ristrutturazione ecologica.

g) riduzione dell'economia finanziaria, sviluppo della "fruizione in natura"
Sino a quando ogni forma di economia sarà canalizzata essenzialmente attraverso il denaro, sarà assai difficile far valere dei criteri ecologici, e ci saranno pesanti ingiustizie socio-ecologiche: chi può pagare, potrà anche inquinare. Un processo di "rinaturalizzazione" - che allontani dalla mercificazione generalizzata (dove tutto si può vendere e comperare) e valorizzi invece l'apporto personale e non fungibile - potrebbe aiutare a scoprire un diverso e maggior godimento della natura, del lavoro, dello scambio sociale. Le "res communes omnium" (dalla fontana pubblica alla spiaggia, dalla montagna alla città d'arte) non si difendono col ticket in denaro, bensì con l'esigere una prestazione personale, con un legame col volontariato, ecc.

h) sviluppare una pratica di partnership
La necessaria autolimitazione ecologica riesce più convincente se si fa esperienza diretta di interdipendenza e partnership: nella nostra attuale condizione, forse potrebbero essere alleanze o patti "triangolari" (Nord/Sud/Est) quelle che meglio riflettono il nesso tra i cambiamenti necessari in parti diverse, ma interconnesse del mondo. L'"alleanza per il clima" ne può fornire una interessante, per quanto ancora parzialissima, esemplificazione.

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Una Costituente ecologica?

Società anteriori alla nostra avevano il loro modo di sanzionare, solennizzare e tramandare le loro scelte ed i loro vincoli di fondo: basti pensare alla "magna charta libertatum", al leggendario giuramento dei confederati elvetici sul Rütli, alla dichiarazione francese sui diritti dell'uomo, al patto di fondazione delle Nazioni unite...

Oggi difettiamo di una analoga norma fondamentale di vincolo ecologico che - viste le caratteristiche del nostro tempo - avrebbe peso e valore solo se frutto di un processo democratico. Certamente esiste in questa o quella carta costituzionale un comma o articolo sull'ambiente, ma siamo ben lontani dal concepire la difesa o il ripristino dell'equilibrio ecologico come una sorta di valore di fondo e pregiudiziale delle nostre società, e di trarne le conseguenze.

Se si vuole riconoscere ed ancorare davvero la desiderabilità sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l'ambiente, bisognerà forse cominciare ad immaginare un processo costituente, che non potrà avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, quanto piuttosto culturale e sociale, ma che dovrebbe sfociare in qualcosa come una "Costituente ecologica". In fondo le Costituzioni moderne hanno il significato di vincolare il singolo ed ogni soggetto pubblico o privato ad alcune scelte di fondo che trascendono la generazione presente o, a maggior ragione, la congiuntura politica del momento. Se non si arriverà a dare un solido fondamento alla necessaria decisione di conversione ecologica, nessun singolo provvedimento sarà abbastanza forte da opporsi all'apparente convenienza che l'economia della crescita e dei consumi di massa sembra offrire.

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